Mantova e l’affido familiare: l’amore senza possesso
MANTOVA. Costruiscono arche dell’accoglienza, dove si impara ad amare mettendo da parte il possesso. Dove ci si sottomette a chat, incontri, confronti continui, fatiche e cadute dolorose per avere mani, testa e cuore più saldi, capaci di aiutare bambini a crescere quando i genitori non sono in grado di farlo. Per poco tempo o per tanto. È quello che fa la cooperativa Arché di Castel Goffredo, che dal 2009, in collaborazione con le aziende speciali Aspa di Castel Goffredo e Aspam di Castiglione si occupa anche di affidi familiari. Negli ultimi 10 anni nell’Alto Mantovano ne sono stati attivati circa 70 . Niente a che vedere con l’adozione, come spiega il coordinatore di Arché Mirko Novello, che con le referenti dei piani di zona di Asola e Guidizzolo, Daniela Ottoni e Alessandra Romagnoli, lavora per offrire a bimbi e ragazzini minorenni del distretto, sia italiani che stranieri, in una situazione di vulnerabilità decretata dal tribunale dei Minori, un’accoglienza temporanea e supporto in un percorso verso l’indipendenza e l’autonomia, fino al raggiungimento dell’età adulta. Tradotto: un pezzo di strada insieme che ha, obbligatoriamente, un termine. Un percorso che va sostenuto dall’inizio alla fine, sottolinea Novello: «è un affido accompagnato, in cui le famiglie non vengono mai lasciate sole, ma inserite in una rete: questo perché l’affido è una scelta di vita, un viaggio di grande apertura da condividere, un’accoglienza a misura di bambino complessa e senza alcun tornaconto. Anche se ogni volta è diverso, l’esperienza degli altri spesso aiuta. La famiglia affidataria è una famiglia “sociale”, un po’ strattonata da tutti, e sempre nell’occhio del servizio sociale». Per questo se Arché è indipendente dai servizi sociali, lavora in collaborazione stretta con i piani di zona: «stiamo sperimentando una coprogettazione pubblico-privato, per ora unica in Lombardia». Con Novello lavorano una psicologa, un’assistente sociale e un’educatrice, pioniera delle famiglie affidatarie della zona. Se il Covid ha acutizzato la battaglia quotidiana, Arché ha cercato di mantenere, seppure in modalità on-line, gli incontri di gruppo, sia di rete che individuali, a cui oggi partecipano 15 famiglie.
Il loro timore, oggi, è che allunghi la sua manina verso chiunque dimostri di volersi prendere cura di lui. Paura ma anche orgoglio: perché significa che ha imparato a fidarsi. Così è l’affido: fiducia, è accoglienza, mica un’ospitalità. È stata una lucina che si è accesa lentamente, per Elena Garosi e Stefano Scutteri, che da anni tenevano le fattorie didattiche a Cascina Basalganella di Ceresara, grazie al vociare dei bambini nella corte. «Ci siamo chiesti se potevamo allargare la famiglia per fare qualcosa di buono per bambini meno fortunati delle nostre figlie, che sono state subito d’accordo» racconta Elena. Lei e Stefano hanno partecipato a un ciclo di incontri sugli affidi familiari, e in dicembre sono stati chiamati. «C’era un bimbo di 4 anni, nigeriano, che era in comunità a Cavriana, da Germana, e aveva bisogno di una famiglia, ma nessuno lo voleva perché c’era un padre, che non voleva occuparsene, ma che non si poteva ignorarlo. Noi abbiamo detto sì». Elena ricorda ancora la sensazione di un brivido quando hanno incontrato Amir (nome di fantasia a tutela del bambino ndr), e hanno sentito che il loro desiderio stava diventando realtà. Che era arrivato un altro cucciolo.
«Ci ha dato subito la mano e dopo poco ha cominciato a chiamarci mamma e papà. Ricordo la vigilia di Natale a casa dei nonni, che non avevamo avvertito, ed è stato un colpo al cuore di gioia. I servizi ci hanno avvertito che sarebbe stato un affido lungo, durante il quale avrebbe incontrato il padre in incontri protetti, con la psicologa e l’assistente sociale». Momenti duri, ammette Elena, perché il padre gli parla in inglese, una lingua che lui non ricorda più. A volte poi non si presenta, e Amir ci resta malissimo, «perché si sente abbandonato per l’ennesima volta, e allora bisogna consolarlo». Si porta nel cuore ferite troppo profonde per un bimbo di 6 anni e mezzo: il viaggio in gommone dalla Libia, la sparizione della madre, le botte del padre, a cui giustamente è stata tolta la potestà genitoriale, «a volte sembra avere dei flash black, come se cercasse il suo passato in mezzo alle ombre, ma riesce a essere un bimbo allegro e solare, che vive in simbiosi con la bimba di 8 anni. Con il lockdown è nato un legame fortissimo, si inventavano mille giochi, sono proprio due fratelli. Quando anche lui ha cominciato a fare i capricci abbiamo detto ok, ora è veramente parte della famiglia».
«Sono bimbi che sentono e vivono una doppia appartenenza, con la famiglia naturale e con l’affidataria, un doppio legame in cui non vogliono deludere nessuno» Sara Beschi, psicologa e psicoterapeuta di Arché, da anni lavora soprattutto sul sostegno e sul supporto emotivo per i bambini e le nuove famiglie. «Bisogna ricordare che la famiglia naturale è quella dove tornerà, alla fine del percorso. Per questo non bisogna essere troppo giudicanti con questi genitori problematici, perché il bambino lo sente». Sull’altro fronte Beschi ha una certezza: «L’affido funziona se la famiglia naturale autorizza, per così dire, il bambino a voler bene agli affidatari. Sono bambini che hanno sviluppato un attaccamento insicuro e questa ferita la portano negli affidatari; non sanno come gestire questo vuoto e spesso diventano provocatori, e raccontano anche un sacco di bugie. Ma bisogna avere la capacità di andare oltre».
Il loro “bimbo” oggi è un giovane padre di 28 anni, e loro sono diventati nonni a tutti gli effetti. Antonella Beladelli è una mamma affidataria “storica”, e in virtù della sua esperienza oggi è referente del gruppo delle famiglie affidatarie dell’Alto Mantovano. Una scelta tutta di cuore, la sua, che ha continuato a rinnovare ogni giorno, dal 1999, quando lei, il marito e le figlie hanno deciso di accogliere uno scricciolo di 5 anni, «per cui cercavano una famiglia con altri figli, perché lui aveva bisogno di stimoli da altri bambini» racconta. Sapevano già che sarebbe stato un affido a lungo termine, quindi fino ai 18 anni, «perché i genitori, che vedeva ogni tanto, erano “trascuranti” e si voleva dar loro la possibilità di trovare un equilibrio, cosa che non è mai accaduta».Il gruppo dell’affido, sottolinea Antonella, è stato un salvagente indispensabile, «perché all’inizio c’è un grande investimento, tutti si vuole che le cose vadano bene, poi c’è il calo, quando si va sulla quotidianità e ci si scontra con una realtà difficile. Escono le ferite di questi bimbi e le loro radici. E allora ti mettono alla prova, per capire fino a che punto sei disposta a sbatterti per loro». Le provocazioni, le bugie, i casini dell’adolescenza, «ne ha fatto uno grosso, ad un certo punto, ma noi non abbiamo mai messo in discussione il rapporto, perché era nostro figlio». Ai 18 anni la possibilità di andarsene lo ha spaventato, «“Dove vado?” ci ha chiesto. E noi gli abbiamo risposto non doveva andare da nessuna parte, che questa era casa sua. E ora per suo figlio è la casa dei nonni».
Equilibrio ecologico, lo definisce Alma Gorgaini, assistente sociale impegnata da 35 anni per gli affidi familiari e consulente della cooperativa Archè. «Quando si lavora in sintonia tra istituzioni e risorse naturali a volte avvengono piccoli miracoli» assicura. La ricetta dell’affido perfetto non esiste, perché ogni situazione è particolare. «Succede che non si trovi un abbinamento subito tra il bambino e la famiglia, o che non ci sia disponibilità per i ragazzini più grandi, per quelli con caratteri difficili o con un handicap, ma poi succede». L’esperienza le ha insegnato l’importanza della collaborazione tra la famiglia affidataria e quella naturale, che non deve sentirsi esclusa. In passato a prendere in affido i bambini era le coppie tradizionali, con o senza figli, mentre oggi ci sono anche single e coppie omosessuali, perché è cambiata la società. Perché l’affido non l’ha inventato la legge, «ma nasce dalla disponibilità ad aiutare, a voler fare un pezzo di cammino insieme. È un gesto di generosità, che agisce anche nel miglioramento delle condizioni di vita dei paesi».