Per la destra è il tempo della rivincita. La vendetta in Commissione Antimafia si consuma su Via D’Amelio
Mentre la vendetta della destra attraverso la strage di Via D’Amelio potrebbe consumarsi definitivamente, c’è il rischio di trovarsi ad un passo da un nuovo 12 marzo 1992, nella distrazione quasi totale.
Il piano di questa destra di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) riesce a coniugare insieme il “meglio” del progetto anti-costituzionale perseguito dalla Loggia P2 di Licio Gelli. Il progressivo asservimento dell’azione penale al potere esecutivo attraverso la riforma della magistratura, votata a tamburo battente in Parlamento, l’orizzonte del premierato, l’impunità per gli abusi di potere, la stretta sulla libertà di informazione, la mortificazione della scuola pubblica…) con i foschi propositi di vendetta di pezzi dello Stato che sentono arrivato il tempo della rivincita su quanti non hanno mai piegato il principio di legalità a quello del primato della prepotenza politica.
L’epicentro simbolico di questo piano, a suo modo eversivo, è la Commissione parlamentare antimafia guidata dalla on. Chiara Colosimo, meloniana di ferro, che ha fatto della “strage di via D’Amelio” il grimaldello per entrare dentro quel pezzo di passato italiano così drammatico e gravido di conseguenze al fine di neutralizzarlo e consegnarlo ai posteri in una versione funzionale agli intenti della parte politica che rappresenta. Una versione, lo abbiamo scritto tante volte, che non prevede né i “neri”, né i così detti “pezzi deviati degli apparati dello Stato” e che ha per tanto la capacità di sradicare la strage di Via D’amelio dal contesto terroristico-stragista servito a contenere la democrazia costituzionale italiana fin da Portella della Ginestra.
Una versione poi che non prevede la proiezione politica di Via D’Amelio sul futuro assetto del potere in Italia, un potere terremotato dal fatale 1989, e che quindi prova a banalizzare il senso delle stragi del 1992 risolvendolo in un feroce colpo di coda difensivo da parte di un potere mafioso-affaristico ormai azzoppato.
Come se non ci fossero state le “bombe del dialogo” (cit. Luciano Violante allora presidente della Commissione parlamentare antimafia) del 1993, come se non ci fosse stato il rapporto “Oriente” del col. Michele Riccio al quale il boss Luigi Ilardo aveva confidato i nuovi “investimenti” politici di Cosa Nostra, prima di essere tempestivamente assassinato ad un passo dall’inizio della collaborazione con la giustizia.
Come se non ci fosse stato Gaspare Spatuzza a smontare un castello di falsità costruito ad arte da “servitori infedeli” dello Stato e molto più recentemente, a riprova di quel fiume carsico di ricatti figli di una pacificazione fatta di impunità e denaro, come se non ci fossero state le inspiegate profezie del gelataio di Omegna, Salvatore Baiardo, che hanno fatto passare un brutto quarto d’ora a Massimo Giletti e che ci hanno accompagnato fino alle porte della “Dogville” di Campobello di Mazara dove l’ultimo boss stragista corleonese per trent’anni latitante è stato consegnato all’opinione pubblica italiana tra amanti, vecchi medici massoni, faccendieri mafiosi stra noti alle forze dell’ordine, supermercati, Viagra, video cassette, calamite e chemioterapie.
Intanto Colosimo tace. Tace sulla Cassazione che ha definitivamente condannato Paolo Bellini per la strage di Bologna, tace sulle intercettazioni agli atti della Procura di Firenze che riguarderebbero gli intenti vendicativi e manipolativi del gen. Mori, tace sulle vergognose frasi pronunciate in Commissione dal duo De Donno-Mori che esaltano il valore di Marcello Dell’Utri e offendono col disprezzo i magistrati della Procura di Palermo.
Lo scontro dentro il ring di questo epicentro simbolico è alle fasi finali e bene sarebbe non lasciarne il peso su poche spalle, alcune delle quali sono le “solite” spalle che da decenni si caricano l’onere delle verità più scomode: il silenzio non è una opzione, è diserzione.
Ma la presidente Colosimo, apostola della centralità del rapporto tra mafia e appalti, tace colpevolmente anche sugli allarmi suonati attorno all’imminente, imponente, campagna di nuovi appalti pubblici. L’anniversario della strage di Via D’amelio infatti arriva quest’anno in un frangente molto particolare, segnato da guerre combattute a suon di bombe, ma anche a suon di dazi, che rischiano di soffocare l’economia o, più precisamente, di far guadagnare soltanto alcuni a discapito di tanti altri, il che si porrebbe in grave contrasto con la regola aurea “Quando si cala la pasta, si cala per tutti” ed in Italia quel “tutti” ha spesso considerato anche le mafie le quali in ampie porzioni di Paese sono “ormai una istituzione” (cit. Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto a Reggio Calabria), destinata a svolgere un ruolo crescente nell’annunciato arretramento dello Stato dalle così dette “aree interne” sempre più impoverite e spopolate.
Ecco perché mi preoccupa molto l’accelerazione voluta dal governo sul Dl Sicurezza e sul Dl Infrastrutture che, combinati insieme, compongono l’habitat migliore per l’apertura dei cantieri per il Ponte sullo Stretto di Messina. Una accelerazione che mi ha riportato alla mente l’agitazione che mosse Salvo Lima fino al fatale 12 marzo 1992. Ai mafiosi le “promesse da marinaio” non sono mai piaciute.
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