Il sistema Milano è il fallimento della politica
Criminalizzazione della politica? Cultura del sospetto? Sottocultura manettara? Dietrologia dei pm? Davvero c’è tutto questo dietro l’inchiesta di Milano? Davvero lo scopo dei magistrati è quello di sostituirsi agli amministratori democraticamente eletti? Ai rappresentanti del popolo? Davvero si vuole processare la città dei grattacieli? L’unica metropoli che sa proiettarsi nel futuro? Davvero «la Procura vuole mettere le mani su un futuro che tocca alla classe politica decidere», come scrive Il Foglio? Davvero «le toghe vogliono sostituirsi al legislatore», come dice il ministro Crosetto? Davvero il problema è solo «la velocità nei processi di trasformazione», come va blaterando Renzi? Davvero, insomma, i magistrati di Milano vogliono processare la politica e il suo legittimo desiderio di cambiare il volto a una città?
L’avviso di garanzia al sindaco di Milano, Beppe Sala, non era ancora stato recapitato e già gli eserciti della dissimulazione pseudo garantista levavano gli scudi. Come al solito pronti a confondere le acque. A sollevare polveroni per nascondere la limpidezza della questione. Perché è limpida l’accusa che viene rivolta al «sistema Milano»: non quella di aver costruito grattacieli, ma di averli costruiti senza rispettare le norme. Non è quello di aver fatto in fretta, ma di non aver realizzato le opere necessarie. Non è quello di aver modernizzato la città, ma di aver calpestato i cittadini che vorrebbero vedere aumentare il loro benessere. Anziché vedere aumentare solo le parcelle di professionisti e archistar.
Naturalmente le accuse sono tutte da dimostrare, e qui è il garantismo è sacrosanto. Tutti sono innocenti fino alla condanna, è chiaro. Ma liquidare l’inchiesta come «il trionfo della supposizione», senza manco averla letta, o addirittura come «eversione» (ancora Il Foglio), cioè strumento per «affermare il dominio istituzionale e ideologico» della magistratura, significa voler arrivare all’assoluzione senza nemmeno considerare le accuse. Perché se uno dice di voler fare una semplice ristrutturazione di un garage e poi invece tira su un grattacielo di trenta piani senza costruirci attorno le opere che il grattacielo richiede, non è colpa della magistratura che attacca la politica. Se uno dice che fa uno studentato e poi invece fa un albergo di lusso, e gli studenti rimangono senza alloggio, non è colpa della sottocultura manettara. Piuttosto, è colpa della sottocultura di governo. Che ha ridotto Milano a una città solo per ricchi.
Prendere la scorciatoia della «criminalizzazione della politica» è insopportabile, in questo caso, per diversi motivi. Il primo è che a Milano la politica ha clamorosamente fallito. Se ci sono 31 hotel a cinque stelle, ma è impossibile per un cittadino normale trovare casa; se arrivano tanti miliardari (2.200 nel 2024, record europeo) ma non si trovano autisti di autobus perché per un autista di autobus è impossibile vivere qui; se proliferano boschi verticali e altre meraviglie ma poi per affittare una topaia in periferia bisogna dissanguarsi; ebbene è colpa dei magistrati? Della loro inchiesta? Dei loro propositi eversivi? Della sottocultura manettara? O è colpa di chi ha amministrato per anni questa città raccontando balle e coprendo di spolverate di falso green una gigantesca opera di cementificazione a vantaggio solo dei ricchi?
I magistrati, poi, sospettano che quest’opera di cementificazione sia pure avvenuta fuori dalle regole. Se così fosse, ovviamente chi ha amministrato la città è responsabile penalmente. Ma se così non fosse, chi ha amministrato la città è responsabile politicamente perché vuol dire che ha fissato regole che hanno permesso di costruire una città di questo tipo, una città che attira i miliardari ma uccide i normali lavoratori, che costruisce grattacieli ma seppellisce il ceto medio. Non è la cultura del sospetto. Basta aprire gli occhi per capire che delle due l’una: o quelle regole sono state violate, oppure erano regole profondamente sbagliate. In entrambi i casi non è la magistratura che si sostituisce alla politica. È la politica che è venuta meno alla sua missione.
Ai tanti sostenitori della supremazia della politica, per altro, mi permetto di sottolineare una cosa. L’accusa che viene fatta agli indagati, Beppe Sala compreso, è quello di aver trasformato la Commissione paesaggio, che era un semplice organo consultivo, in un centro decisionale che scavalcava tutte le procedure, e varava piani urbanistici bypassando il Consiglio comunale e il dibattito dei legittimi eletti. Ora: da che parte sta la politica? Da che parte sta la democrazia? Se i piani di Milano vengono discussi dai legittimi eletti, forse c’è qualche speranza che gli interessi dei cittadini vengono difesi. Se invece vengono decisi autonomamente da una Commissione paesaggio composta da professionisti, nominati e non eletti, e per di più spesso in conflitto d’interesse, il sospetto è che più che gli interessi dei cittadini si difendano consulenze e parcelle. Possibile che i difensori della politica non si accorgano che non sono i magistrati che vogliono sostituirsi alla politica ma i comitati d’affari? Che la vera minaccia per la democrazia, in questo caso, non viene dalle toghe ma dalla cricca degli appalti?