Diego Dalla Palma: mi racconto in uno spettacolo senza copione
Nell’intervista a Diego Dalla Palma non siamo soli: insieme a noi c’è Stamatis Spaoudakis, compositore greco di grande talento. O meglio, la sua musica.
È musica classica quella che sento in sottofondo dall’altro capo del telefono?
“Sì, è una delle mie migliori amiche, insieme alla natura e al viaggio”.
Basterebbe solo questo a trasmettere la sensibilità d’animo di un uomo che ha saputo fare delle mille difficoltà della vita, un’arma per la realizzazione dei propri sogni. Un uomo conosciuto per le doti creative, per essere uno “studioso di bellezza” come ama definirsi. Scenografo, costumista, imprenditore e scrittore. Dispensatore di fascino a trecentosessanta gradi.
Ma dietro c’è di più. Visceralmente di più: un intero mondo da scoprire. E che Diego è pronto a raccontare.
Ha iniziato a farlo nel 2024 con il podcast “VIVO – Confessioni nella tempesta”, dove si racconta, non risparmiando episodi intimi, sconfitte, rinascite, frantumando i falsi moralismi di cui è stato vittima fin da bambino, riservando loro una strada insolita: il perdono.
Lo farà con il suo libro, in uscita il prossimo ottobre, dal titolo “Perché no?”. Titolo che prende il nome proprio dallo spettacolo (meglio definirlo un dialogo con il pubblico), che porterà in giro per l’Italia dal prossimo 29 luglio al Festival della Versiliana, il 17 settembre a Rho, per poi riprendere nel 2026. Un viaggio in teatro che rompe qualsiasi barriera tra palco e platea, per ridere, commuoversi e riflettere insieme.
Ci racconta un po’ di questo spettacolo, o “non spettacolo” come preferisce definirlo?
“Esatto. Non è uno spettacolo, è un confronto con la gente. Non è uno spettacolo perché non c’è copione, e ogni sera può accadere di tutto. L’abbiamo pensato io e Paolo Gioia, autore, giornalista e direttore creativo, con la regia di Marco Iacomelli e Costanza Filaroni. Abbiamo creato uno schema di argomenti, e sugli argomenti io mi muovo liberamente fra la gente e soprattutto con la gente, perché io coinvolgo il pubblico su mie intuizioni. Ho un intuito pazzesco, che sicuramente mi è derivato dall’aver incontrato la morte quando avevo solo sei anni, con tanto di coma”.
Com’è successo?
“È stata una meningite linfocitaria fulminante presa in ritardo. Fortunatamente, dopo pochi giorni sono uscito dal coma, ma è stata un’esperienza che mi ha aiutato ad affrontare la vita con più filosofia. Quell’esperienza mi ha portato a sviluppare un sesto senso molto forte. Molta gente mi definisce geniale: credo solo di essere una persona che avendo vissuto quell’esperienza, si è ritrovata ad accogliere nel proprio DNA un senso creativo e artistico, che mi ha aiutato infinitamente durante tutta la vita. Mia madre mi ha sempre detto che prima del coma, non avevo nessuna propensione per il disegno. Subito dopo, ho cominciato a disegnare ovunque, anche con pezzi di mattone. Dopo il coma, sviluppavo in continuazione questa mia creatività.”
I teatri dove si esibirà saranno spogli, la scenografia sarà rappresentata solo da tredici elementi, che simboleggiano tredici concetti, tredici cicatrici.
“Il palcoscenico sarà volutamente e teatralmente spoglio perché spoglio e a nudo ci sarò io e solo io”.
Senza spoilerare troppo, vuole fare il nome di qualche oggetto di scena a cui è particolarmente legato?
“L’amore. Lo raffiguro come una bolla di sapone. Perché l’amore è un’incognita: può durare per sempre, sospeso, oppure può scoppiare da un momento all’altro e ti trovi con niente in mano. Perlomeno, io l’ho vissuto così.
Un altro simbolo importante è la consapevolezza.
“Spesso mi guardo indietro (cosa che prima non facevo) in questo tempo fatto soprattutto di consapevolezza, qualità che non ho mai coltivato. Non sapevo cosa fosse. Pensavo sempre, tutto sommato, che ci fosse una specie di eterno misurarsi, per poi accorgermi che non è così. Ho cominciato ad accettare il tempo che passa. L’accetto con un po’ di poesia, l’accetto con metodo, coltivo tanto la pazienza, aspetto il tempo finale della mia vita nel quale sono già entrato con armonia.”
Però ha una vitalità da far invidia a un giovanotto.
“E sa perché? Perché ho conservato gelosamente e furiosamente la mia parte infantile. Io sono ancora un ragazzino. Se si aggiunge la parte infantile al dolore, anche all’umiliazione, perché no, e a una vena di sana follia, salta fuori questo. Salta fuori il mio modo di vivere, il mio modo di essere. L’atipicità, la diversità io le ho coltivate perché ho avuto una madre che era atipica e singolare. Si chiamava Agnese. Era una donna che metteva sempre il rossetto, si vestiva con cura nonostante vivessero di pastorizia. Era una donna che per non puzzare di letame si lavava tre volte. Si metteva anche delle strane calze. Una volta ne ha messo un paio molto particolare. Era andata in paese, in piazza. È tornata a casa e le ha bruciate, dicendo: “non si può essere diversi in questo posto, altrimenti si trasforma tutto in sofferenza!”. E allora ho capito che io sono mia madre, ma a differenza sua, io le calze non le ho bruciate.”
Lei racconta di aver subito tanto bullismo.
“Venivo attaccato perché ero leggermente effemminato: allora, questo aspetto era una pacchia. La sofferenza più grande l’ho avuta dagli adulti: con i miei coetanei c’era l’offesa, ma poco dopo ritornava l’intesa. Sono sempre gli adulti che sviluppano la cattiveria, la perfidia e la malvagità. Quando andavo in giro con mia mamma al mercato, oppure a messa, vedevo i loro sguardi critici e ironici, e qualche volta i loro pareri li esternavano anche davanti a mio padre e mia madre. E questo mi ha fatto molto, molto, molto male. Però uno dei temi che tratto nel mio “spettacolo senza copione” è il perdono. Ho imparato a perdonare in una maniera meravigliosa, non fatico neanche più.”
Davvero?
“Ho cominciato un po’ di anni fa a capire che il perdono era qualcosa che mi migliorava la vita, che me la rendeva meno ingombrata, meno cupa. Oggi ho perdonato e perdono tantissimo, ma tengo a precisare (altrimenti sembrerei “San Diego”!): ho una precisa cognizione del ricordo. Perdono, ma non dimentico diciamo. In Turchia dicono che si catturano più formiche con una goccia di miele che con un barile di aceto. Mi considero un uomo atipico anche in questo. Sinceramente adesso che ho un’età matura, posso dire di essere molto contento di come mi sono comportato nella vita. Sono stato contento e orgoglioso di come mi sono preso cura dei miei genitori fino alla fine, li ho curati e accarezzati. Devo però ancora imparare a perdonare me stesso; questa è una lezione che non ho ancora assimilato.
Sua mamma le ha sempre lasciato dei messaggi bellissimi e per niente scontati, soprattutto perché parliamo di cinquant’anni fa, in un ambiente di sperduta montagna.
“Le svelo un altro suo bellissimo messaggio, da condividere. Quando decisi di venire a Milano, una delle sue sorelle maggiori le disse: “Agnese, se lo lasci andare via lo perdi”. Stavano piegando un lenzuolo, lo ricordo ancora come se fosse ieri. Finito di piegalo, mia mamma rimase per qualche minuto in silenzio, poi rispose ferma: “no, lo perdo se lo tengo qui!”. Ho avuto la più grande fortuna forse che un essere umano può avere: un padre marcantonio maschio con la sensibilità femminile, e una madre femminilissima, con un piglio e un’identità maschile”.
Questo gli ha permesso di spiccare il volo.
“Sono stato fortunato in tante cose. Confesso però, e questo lo tratto anche nel mio viaggio in teatro, che sono in totale disaccordo con chi dice che la vita è una cosa meravigliosa. La vita è un viaggio difficoltosissimo per una breve vacanza. Noi la facciamo diventare meravigliosa. Siamo noi che trasformiamo gli eventi, il dolore. La maggior parte delle persone reagisce, vive e si rialza. Io sono stato fortemente questo, ecco perché ogni tanto mi stimo da solo, perché riconosco l’enorme forza che ho avuto. E mi rivedo in quei momenti in cui ero solo, spaesato, non sapevo dove andare, ero pieno di debiti e fallimenti anche sentimentali. A volte mi chiedo come abbia fatto a risalire sempre la china così velocemente. Ho settantaquattro anni (settantacinque a novembre) e sono fiero di me. Mi sono meritato la luccicanza”.
Questo viaggio in teatro può essere visto, senza nessuna volontà o presunzione, come un insegnamento, perché tanta gente ha passato esperienze simili alla sua, o non le ha passate perché si è conformato ai dettami della società, pentita però di averlo fatto. Un insieme di insegnamenti basati sulla sua vita che regala con naturalezza.
“Più che insegnamenti, le chiamerei indicazioni nel dire agli altri: “guardate come uno straccio sfilacciato, umido e sporco possa diventare un lenzuolo di seta”.
Diego Dalla Palma è libertà e istinto. Ci regala un viaggio toccante e profondo tra i suoi inizi, i successi, le gioie e le soddisfazioni, il bullismo subito, le ferite emotive inflittagli da bambino e poi da ragazzo, con una sincerità spiazzante, con una disponibilità e una tenerezza nell’apertura della propria anima al prossimo inopinabilmente ammirevoli. Senza filtri. Senza temere nessun giudizio. Perché è bello essere vivi, fragili, liberi.
Chissà come sarebbe orgogliosa mamma Agnese.