Maggioranza entusiasta per l’aumento degli occupati al Sud. Ma il mercato del lavoro è in rallentamento e la produttività in calo
Il governo Meloni continua a non commentare la revisione al ribasso di 120mila unità del numero degli occupati arrivata dall’Istat all’inizio di settembre: un aggiustamento tecnico che ridimensiona i record rivendicati dalla maggioranza. In compenso venerdì la pubblicazione dei dati sul mercato del lavoro nel secondo trimestre ha suscitato l’entusiasmo della premier e di parlamentari di tutto lo schieramento di destra. Al solito, i commenti si concentrano su un unico “talking point” ripetuto all’unisono: l’aumento oltre il 50% del tasso di occupazione al Sud, il dato più alto dall’inizio delle serie storiche nel 2004. “Ci accusavano di voler spaccare l’Italia, ma la verità è che abbiamo scelto di credere nelle energie, nel talento e nella forza del Sud”, rivendica Giorgia Meloni sui social. “Abbiamo avuto il coraggio di dire basta alla stagione dell’assistenzialismo, che per troppo tempo ha alimentato l’idea di un Mezzogiorno condannato a restare indietro. Abbiamo investito in infrastrutture, lavoro, merito”. “Dato storico”, aggiungono Maurizio Gasparri (FI), Claudio Durigon (Lega) e i peones di FdI.
Giova notare che si tratta di un dato trimestrale e potenzialmente soggetto a successive correzioni. Al netto degli slogan, poi, la nota dell’istituto di statistica descrive un quadro in chiaroscuro. La crescita degli occupati, iniziata dopo la pandemia quindi ben prima dell’arrivo di Meloni a Palazzo Chigi, prosegue ma a un ritmo che va rallentando: è “dimezzata rispetto al trimestre precedente”, annota Istat. Anno su anno gli occupati sono saliti di 226mila (+0,9%), contro l’aumento di 432mila unità che si era registrato tra gennaio e marzo. Di positivo c’è che si tratta di dipendenti permanenti (+296mila) e a tempo pieno, mentre i precari scendono di 221mila. Poco rassicurante l’ sul trimestre precedente (+1,7% annuo) a fronte del calo dello 0,1% del pil dello stesso trimestre (+0,4% il dato anno su anno): significa che la produttività per ora lavorata sta diminuendo. Cioè si lavora di più ma si produce relativamente meno. Possibile che dipenda dalla qualità dell’occupazione, concentrata – come aveva segnalato qualche mese fa la stessa Istat – in settori a basso valore aggiunto. Lavoro “povero”, insomma. Le posizioni lavorative, del resto, aumentando soprattutto nelle attività immobiliari e nei servizi di alloggio e di ristorazione, seguiti dalle Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento.
Se poi si guarda alle classi di età, si scopre che ancora una volta a trainare l’incremento sono stati gli over 50 (+2%): al netto dell’effetto della demografia, una nuova conferma del fatto che i “nuovi” occupati sono più che altro persone che ritardano la pensione in conseguenza della legge Fornero. Gli ultracinquantenni al lavoro hanno non a caso superato per la prima volta quota 10 milioni, +422mila sullo stesso periodo del 2024. Immobile invece il dato per i 35-49enni, in teoria il cuore del mercato, mentre la fascia più giovane, tra 15 e 24 anni, ha visto l’occupazione addirittura calare dell’1,7% e il tasso di disoccupazione aumentare dell’1,3%.
Anche la discesa complessiva degli inattivi (-150mila, -1,2% in un anno) nasconde differenze sostanziali legate al genere e alle cause che stanno dietro il disinteresse per la ricerca di un lavoro. Per le donne il tasso di inattività è al 41,7%, quasi il doppio rispetto a quello degli uomini (+23,9%). E la riduzione degli inattivi nell’ultimo anno, dice l’Istat, si è concentrata tra gli scoraggiati (-19,6%) e i pensionati o non interessati al lavoro (-15,6%), mentre sono aumentate del 15% le persone che non cercano per motivi familiari. Non un buon segnale rispetto al funzionamento dei servizi per le famiglie, cruciali per aumentare la partecipazione delle donne.
Dal lato delle imprese, le posizioni lavorative dipendenti crescono sia su base congiunturale (+0,4%) sia annua (+1,7%), soprattutto nei servizi (+2%). Ma le ore lavorate per dipendente calano dello 0,5% sul trimestre e 0,3% sull’anno, così come le posizioni in somministrazione (-3,6% in un anno), a fronte della crescita dei contratti intermittenti (+6,1%), a cui si ricorre per rispondere a esigenze di estrema flessibilità. Il che spiega, in parte, la fragilità sul fronte della produttività.
E i salari? Le retribuzioni lorde di fatto crescono dello 0,6% sul trimestre e del 2,9% su base annua e quelle contrattuali di cassa accelerano al +4,1% annuo, spinte dai rinnovi dei contratti e dall’erogazione di arretrati. Ma si tratta di salari nominali. Quelli reali, che tengono cioè conto dei prezzi, stando alle rilevazioni dell’Ocse restano inferiori rispetto al livello del 2021: la performance peggiore tra i Paesi sviluppati. Lo sa bene anche il governo – che oggi di questo non parla – se il vicepremier Antonio Tajani da qualche settimana batte sulla necessità di inserire in manovra, oltre alla sempre rinviata riduzione dell’Irpef per il “ceto medio”, anche un intervento di decontribuzione a favore degli “stipendi più poveri”. Il vicepresidente del M5S Mario Turco mette il dito nella piaga: “Ogni volta che l’Istat dirama i dati sull’occupazione”, commenta, “maggioranza e Governo, con la premier Meloni in testa, suonano lo stesso spartito. Propaganda utile a coprire le tante ombre che aleggiano sul mercato del lavoro, in primis produttività stagnante e salari al palo“.
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