Il Natale dei medici di Emergency a Gaza: “Qui non ci sono più ospedali. E ci mancano i farmaci più banali, antibiotici, garze”
Non solo la malnutrizione, le malattie da acqua e cibo contaminati, e le ferite di guerra lasciate in eredità da due anni di bombardamenti israeliani. Nella clinica di Emergency di Al Qarara ora si curano anche le infezioni respiratorie dovute alla vita in tenda e al fumo del fuoco usato per scaldarsi. È la nuova, drammatica, quotidianità della popolazione della Striscia di Gaza, che a più di due mesi di cessate il fuoco sta affrontando l’inverno in campi sovraffollati, con rifugi di fortuna che cadono a pezzi, che affondano nel fango quando piove e vengono spazzati via quando c’è vento forte. Condizioni di vita al limite che ci restituiscono un’emergenza senza fine.
“Durante il primo cessate del fuoco – racconta la coordinatrice medica di Emergency, Marta Bergamaschi in un contributo video inviato al Fattoquotidiano.it – la popolazione di Gaza aveva lasciato quest’area centrale per ritornare nelle loro zone di origine. Questa volta, forse perché non si fidano abbastanza, non è successo e questa zona è quindi molto sovrappopolata”. Bergamaschi parla dalla clinica che l’ong ha aperto ad Al Qarara, nel governatorato di Khan Younis, dove lo staff cerca ogni giorno, anche in questi di festa, di rispondere al bisogni della popolazione. Esigenze che, nonostante l’attenzione globale su Gaza sia calata, restano enormi. Qui medici e infermieri si occupano di primo soccorso, assistenza di base, attività ambulatoriali e trasferimenti in altre strutture a 10mila persone. Un lavoro essenziale se si pensa che nella Striscia non esiste più un ospedale pienamente operativo. “Praticamente tutte le strutture che si occupavano di medicina di base non esistono più. E solo 18 ospedali su 36 risultano parzialmente funzionanti”.
“La situazione sanitaria rimane estremamente emergenziale, le nostre attività sono molto limitate” spiega ancora Bergamaschi, mentre in sottofondo si sente il ronzio costante di un drone israeliano. Nonostante gli accordi per la tregua, i medicinali sono ancora pochi, non bastano. “Abbiamo difficoltà quotidiane nel recuperare farmaci banali come antibiotici, anti ipertensivi o anti diabetici. Fatichiamo anche ad avere qualsiasi tipo di materiale medicale, dalle garze agli strumenti elettronici”.
Da settimane le Nazioni Unite e le agenzie umanitarie internazionali accusano Israele di non consentire l’ingresso nell’enclave di aiuti e attrezzature di emergenza sufficienti. Oltre ai medicinali, nei campi mancano coperte, vestiti invernali e soprattutto centinaia di migliaia di nuove tende per affrontare questi mesi. Quelle esistenti sono logore e consumate, si squarciano con il peso dell’acqua piovana, si inzuppano, non sono in grado di offrire un riparo adeguato dal vento e dalle temperature che crollano durante la notte: almeno due bambini nelle ultime settimane sono morti di ipotermia. Senza considerare che alcune famiglie non hanno nemmeno le tende e si rifugiano nei palazzi ridotti a ruderi dalle bombe con il rischio che gli crollino addosso.
“Più della metà della popolazione della Striscia, un milione e 300mila persone, non ha un riparo sicuro per l’inverno. Vive in tende o in strutture fatte di legno e qualche telo di plastica. E il brutto tempo mette a dura prova le condizioni già critiche. Nei giorni scorsi anche i nostri colleghi ci hanno scritto messaggi durante la notte, avvisandoci che non sarebbero venuti al lavoro perché la loro tenda era piena d’acqua e da riparare”.
Rispetto a tre mesi fa è aumentato l’ingresso di cibo, ma i prezzi, racconta Bergamaschi, rimangono ancora molto alti e inaccessibili per molte famiglie. Le restrizioni di Tel Aviv sugli aiuti riduce anche la disponibilità di articoli per l’igiene e per la cura personale, con gravi conseguenze sulle ragazze e sulle donne. Un pacco di assorbenti può costare anche 6 dollari al mercato nero. Una cifra proibitiva per molte persone che sopravvivono con poche cose.
“La necessità principale della popolazione di Gaza. in questo momento è l’apertura dei corridoi. Corridoi in ingresso che consentano un maggiore ingresso di cibo, di medicinali e materiali medicali ed edile per ricostruire ciò che resta delle case. Ma bisogna anche aprire i corridoi in uscita, perché ci sono circa 18mila persone gravemente ferite o ammalate che aspettano di essere evacuate”.
A questo link i progetti di Emergency in Italia e nel mondo
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