Per favore, salvate i pescatori
Tra importazioni insensate e norme incomprensibili, in dieci anni il pescato in Italia si è ridotto del 16 per cento. E un settore storico dell’economia scompare. Nell’indifferenza generale.
Per favore, salvate i pescatori. Sono una specie in via di estinzione. E, per altro, faticano a farsi sentire. Gli agricoltori, almeno, riescono a bloccare le città con i loro trattori. I pescatori che fanno? Le barche non sfilano in tangenziale. Tutt’al più rimangono ferme in porto. Come succede sempre più spesso. Così, uno dopo l’altro, i pescatori si arrendono, abbandonano le reti e la loro vita. E una delle più antiche e gloriose tradizioni italiane rischia di sparire nel silenzio generale, uccisa da leggi particolari e disattenzioni diffuse che sembrano avere un unico comun denominatore: dei pescatori non importa nulla a nessuno. Abituati come sono a vedersela col silenzio del mare, fanno troppo poco rumore nei palazzi. Le loro lampare illuminano le notti, ma scompaiono durante il giorno. Tanti ami eppur poco amati. Molte esche ma poche tresche. Così nessuno si preoccupa davvero della loro scomparsa.
Eppure i pescatori non possono non suscitare simpatia. «Getta le tue reti, buona pesca ci sarà», cantava Pierangelo Bertoli. Canta le tue canzoni che burrasca calmerà. Poco pesce nella rete lunghi giorni in mezzo al mare. Non possono non suscitare simpatia le figure dei pescatori che ispirano gli artisti, come quello di De André che «versò il vino e spezzo il pane per chi diceva ho sete e ho fame”. Ma non possono non suscitare simpatia anche le figure dei pescatori della realtà. Quand’ero ragazzino andavo al mare con i miei a Cervo. E c’era Mario. Aveva anche lui «un solco lungo il viso come una specie di sorriso» e le acciughe più buone della Liguria. O almeno, così sembravano a me, che correvo dietro la sua malconcia Ape carica di cassette con il pesce appena pescato. Scendeva dalla barca di mattina presto e saliva su quel grondante trabiccolo giallo che qualcuno diceva portasse in giro odori molesti. Per me, invece, portava in giro soltanto il profumo della notte in mare.
Ripensavo per l’appunto a Mario, a quelle mattine, a quelle acciughe, ripensavo alle figure immaginarie di libri, film e canzoni, ma ancor più alle figure reali di pescatori che ci hanno regalato pesce buono e sguardi ancora migliori, e mi chiedevo come sia possibile che del loro tragico destino non interessi nulla a nessuno. Già oggi otto pesci su dieci sulla nostra tavola arrivano dall’estero. Importiamo tonni dalla Thailandia, salmoni dall’Egitto, merluzzi dall’Ecuador. Negli ultimi dieci anni il pescato in Italia si è ridotto del 16 per cento, nei prossimi anni potrebbe ridursi, secondo le stime degli addetti ai lavori, addirittura del 70 per cento. Così saremo prossimi alla fine. Eppure tutto tace. Tutto tace anche se non c’è giorno che, dalla riva del mare, non arrivi la notizia di una nuova crisi, di una nuova débâcle. Di una nuova tragedia.
Il nume tutelare mi segnala la scomparsa dei pescatori di vongole. Negli ultimi tempi nel Delta del Po non si è tirato su nemmeno un mollusco. Nemmeno uno. Colpa dell’invasione del granchio blu, certo. Colpa del cambiamento climatico. Ma anche del disinteresse generale, della mancanza di interventi, del fatto che nessuno se ne sia occupato. Le pesca dell’anguilla, di fatto, già non esiste più, anche perché quasi non esistono più le anguille. A Taranto stanno per scomparire i pescatori di cozze: a metterli in crisi è il progetto di un parco fotovoltaico off shore, voluto da una multinazionale greca. E se tutto questo non bastasse ci si mettono anche le leggi europee che finanziano la rottamazione dei pescherecci per fermare la pesca a strascico: Bruxelles vuol distruggere le imbarcazioni e fornisce un contributo ai pescatori, a patto che non tornino a pescare per almeno cinque anni. In Liguria sono furibondi: «Questa è la nostra storia, perché si spendono soldi pubblici per ucciderla?».
Non c’è tratto dei 7.500 chilometri di costa italiana dove non si raccolgano sentimenti simili. Rabbia e sconforto. I pescatori non hanno mai avuto paura di affrontare l’ignoto. Escono ogni notte, da sempre, sfidano le onde con le loro barchette, sanno cosa vogliono dire sacrificio e sofferenza. Ma all’attacco di un simile Moby Dick istituzionale non erano preparati. Non se l’aspettavano. E l’impressione è che non riescano nemmeno a organizzarsi per far sentire la loro voce, il loro grido disperato. Sono dispersi, proprio come le loro imbarcazioni in mezzo al mare. Chini su loro stessi, come quando gettano le reti. Ognuno grida la sua disperazione ma quest’urlo non diventa mai un fermento generale, collettivo. Così nessuno si rende conto che la pesca italiana sta sparendo. Che i pescatori italiani si stanno estinguendo. Ribelliamoci. Fermiamo il disastro. O la prossima canzone che un artista dedicherà alla gente del mare sarà una nenia funebre. O, peggio, un canto alla memoria.