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Non solo un film, Joyland è il simbolo di una rinascita. Conosco bene la censura pakistana

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Quando ho visto Joyland per la prima volta, mi sono chiesto, possibile che un film proveniente dal Pakistan, un Paese che troppo spesso associamo solo a cronache politiche e a stereotipi religiosi, possa scuotere le coscienze a livello globale? Secondo me sì, e anzi penso che sia proprio questa la forza del cinema: mostrarci l’inatteso, dare voce a chi non ce l’ha.

Per capire l’impatto di Joyland diretto dal regista pakistano Saim Sadiq, bisogna tornare indietro di qualche decennio. Negli anni 50 e 60, Lahore era la capitale del sogno. “Lollywood” produceva melodrammi, commedie e film d’azione che riempivano le sale e costruivano un immaginario nazionale. Io credo che in quell’epoca il cinema pakistano avesse una funzione simile a quella che, in Italia, ebbero i nostri film popolari del dopoguerra: dare al pubblico un senso di appartenenza e di riscatto.

Poi, alla fine degli anni 70, arrivò il generale Zia-ul-Haq. Dal 1977 al 1988 il suo regime militare impose un islam politico rigido che soffocò l’arte. Ritengo che la censura di quegli anni non abbia solo “tagliato” scene considerate immorali, ma abbia reciso un filo vitale che legava gli spettatori al loro stesso Paese. Le sale si svuotavano, le bobine venivano sequestrate, gli artisti ridotti al silenzio. Non era più un cinema libero, ma un cinema amputato.

E non fu solo il cinema a pagare il prezzo. Anche la televisione venne piegata a quell’ideologia. Le conduttrici furono costrette a indossare il velo per presentare i notiziari, mentre nelle serie tv fu proibito l’uso del abito Sari, considerato “troppo indiano”, e venne imposto lo shalwar kameez come unico abito “accettabile”. Io penso che quello sia stato un atto di violenza simbolica enorme: non si trattava solo di vestiti, ma di libertà negate. Ricordo bene come tante attrici, con grande dignità, dissero di no a quelle imposizioni. Alcune smisero addirittura di lavorare, pur di non piegarsi a regole che calpestavano la loro identità. Questi gesti di resistenza, silenziosi ma potenti sono stati eroici quanto quelli dei registi censurati.

So bene cosa significhi scontrarsi con questo muro. Nel 2011 ho prodotto The Dusk, un film che affrontava il tema delle persone scomparse in Pakistan: un dramma doloroso e scomodo. Il censor board lo ha bloccato, impedendone la distribuzione.

Due anni dopo, ho realizzato Fatwa, che denunciava l’estremismo religioso e gli attacchi terroristici alimentati nei luoghi pubblici, e madrassah (scuole islmiche) dove ragazzi giovanissimi venivano indottrinati. Anche in quel caso, la censura è stata spietata. Ricordo la frustrazione, la sensazione di inutilità: mesi di lavoro cancellati in un istante. A mio avviso, non esiste ferita più grande per un regista che vedere la propria voce messa a tacere. Da allora ho smesso di girare lungometraggi di finzione. Ho scelto i documentari, perché lì almeno potevo portare alla luce storie vere, senza la paura di non riuscire a condividerle. Io penso che sia stata una rinuncia dolorosa ma necessaria: meglio continuare a raccontare, anche in forme diverse, che rassegnarsi al silenzio.

Negli anni 2020, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. Una nuova generazione di registi ha deciso di non arrendersi. Secondo me, ciò che rende coraggioso questo tentativo è che molti di loro hanno scelto di raccontare temi scomodi: il ruolo delle donne, la sessualità, le ipocrisie della società patriarcale. Non si tratta solo di “fare film”, ma di aprire uno spazio di discussione che altrimenti resterebbe soffocato. Io penso che sia qui la vera rinascita: non tanto nei numeri delle produzioni, ancora fragili, ma nel coraggio di osare.

Il simbolo più evidente di questo percorso è Joyland. Presentato al Festival di Cannes nel maggio 2022, nella sezione Un Certain Regard, è stato il primo lungometraggio pakistano della storia ad approdare sulla Croisette. La storia di un giovane uomo che cerca di liberarsi dai vincoli di una famiglia tradizionale e che si innamora di una donna trans è, a mio avviso, un atto rivoluzionario. Non perché “provocatorio” in senso facile, ma perché umano. Racconta desideri, paure, contraddizioni. Io credo che il successo del film a Cannes e la sua candidatura agli Oscar abbiano dimostrato due cose: che il pubblico internazionale è pronto ad ascoltare il Pakistan autentico, e che l’arte può sfuggire anche al controllo più rigido.

Certo, non bisogna illudersi. Ritengo che la sopravvivenza del cinema pakistano resti fragile: poche sale, scarsi investimenti, censura sempre in agguato. Eppure, ogni volta che un film come Joyland o un documentario di Sharmeen Obaid-Chinoy riesce a emergere, è come una piccola vittoria contro l’oblio. Io penso che sia un segnale potente: anche nelle condizioni più ostili, l’arte trova un varco.

La lezione che possiamo trarre da questa storia non riguarda solo il Pakistan. Ci riguarda tutti. Perché ogni volta che un potere politico cerca di imbavagliare la cultura, ciò che si perde non è solo intrattenimento, ma libertà. E ogni volta che un’opera resiste, ci ricorda che la libertà è più ostinata di qualsiasi divieto.

Alla fine, la domanda è semplice e inquietante, vogliamo un futuro in cui il cinema continui a essere voce libera delle società, o accetteremo che diventi un’eco addomesticata del potere? Io penso che la risposta dipenda anche da noi spettatori. Perché, guardando film come Joyland, non stiamo solo osservando un’altra cultura, ma stiamo scegliendo da che parte stare.

L'articolo Non solo un film, Joyland è il simbolo di una rinascita. Conosco bene la censura pakistana proviene da Il Fatto Quotidiano.















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