Perché il divieto dello smartphone a scuola è una mossa punitiva e ipocrita
Immaginate di dover frequentare ogni giorno, tutti i giorni feriali, un convegno lungo dalle otto alle due di pomeriggio. Immaginate che all’entrata vi sequestrino lo smartphone. Come reagireste? Sareste felici, tranquilli? O non provereste disagio, privati dello strumento con cui fate tutto, anche durante un convegno, specie nelle pause?
Ebbene, l’ideona del ministro Valditara, la grande riforma scolastica della destra italiana, produrrà proprio queste conseguenze negli adolescenti: maggior odio verso la scuola, sensazione di essere privati di una cosa fondamentale, maggiore malessere, persino maggior abbandono scolastico.
Ovviamente, non sto sostenendo che l’iperconnessione faccia bene. Ma la domanda è: gli adolescenti sono adulti? Vogliamo considerarli come tali, persone cresciute e responsabili? E se sì, perché gli facciamo una cosa che mai faremmo a noi stessi, perché se lo facessimo andremmo letteralmente fuori di testa, visto che i primi dipendenti digitali – come va dicendo da anni lo psicoterapeuta Matteo Lancini – siamo noi?
Manca una riflessione su chi siano gli adolescenti. Manca, in questa furia del “sorvegliare e punire”, una riflessione su come usino lo smartphone, su cosa rappresenti per loro, in sostanza sul perché si toglie e su chi è colui-colei a cui viene tolto. Esattamente come per quegli appelli, fatti anche da noti vip di sinistra, per non dare il cellulare fino a 14 anni: qual è il senso di questa proposta? Siamo sicuri che in una società dove tutto si basa sullo smartphone – muoversi, acquistare, fare ricerche, soprattutto essere in connessione con gli altri – sia una buona idea?
Chiunque abbia un adolescente in casa sa che il problema non è lo smartphone, ma ben altro. La dipendenza digitale esiste, ma è più grave per bambini piccoli, ai quali viene messo in mano un tablet a due anni, o per ragazzini di 7-8 che giocano per ore, incessantemente. Ma quello è un altro capitolo, e riguarda, tra l’altro, i videogiochi, non lo smartphone in sé.
Per l’adolescente invece lo smartphone è vita. È anzitutto relazione. Ci si tiene in contatto con gli amici, se ne conoscono di nuovi. Gli adolescenti fanno lunghissime chiamate con amici e amiche camminando per casa e facendo cose. Dipendenza digitale? Direi piuttosto amicizia, senso di non poter stare senza un amico o un’amica. Con lo smartphone fanno tutto, trovano strade e posti dove deve andare, si informano sui siti e anche attraverso i social di ciò che accade, guardano video e documentari, fanno ricerche. Esattamente come noi.
Incredibile, vero? Eppure noi crediamo che togliergli quello strumento sia la soluzione! Spesso lo smartphone, invece, è quello che evita il peggio, proprio per la sua capacità di mettere in connessione, cosa di cui gli adolescenti hanno un bisogno radicale.
Si torna al punto. Sulle “riforme” di Valditara c’è poco da dire, se non che riflettono un’impostazione punitiva che non è solo antiquata e impraticabile ma oggi, alla luce di quanto tutti siamo connessi, Valditara compreso, anche profondamente ipocrita. Si fa la cosa più semplice: proibire, senza considerare in nessun modo le conseguenze psicologiche per i ragazzi, che magari durante le pause chiamavano amici o si scambiavano messaggi, meme ironici sui professori, messaggi a casa. Ha prevalso l’assurdo “mantra” del chiudere a chiave lo strumento “cattivo” (solo per gli studenti, non per noi), lasciando poi la patata bollente ai professori e ai presidi, che devono vedersela con gli aspetti pratici – gabbie, scatole, anche se per fortuna molti chiederanno semplicemente che venga spento – e non solo (si parla addirittura di “sospendere” un ragazzo se usa il cellulare. Immaginatevi se valesse per noi, sarebbe un mondo di sospesi).
Le contraddizioni comunque non si fermano qui perché, oltre al fatto che non è che fino a ieri gli studenti stavano a chattare sui banchi, anzi, il cellulare andava comunque riposto, lo stesso smartphone viene riabilitato se serve per fare attività didattiche diventando quindi improvvisamente positivo, con tutta la confusione del caso. Insomma, come ha scritto Giulio Iraci, professore in un liceo romano, “il divieto dell’uso di smartphone ha suscitato riflessioni su come sequestrarli e custodirli. Delle contraddizioni con la norma vigente, con la ricerca e la formazione; dell’ingerenza nell’autonomia scolastica e nella libertà di insegnamento; della sfiducia e del mancato ascolto di studentesse e studenti; del crescente clima securitario e sanzionatorio del mondo scuola; della proiettiva, ipocrita, illusoria lavata di coscienza del mondo adulto rispetto all’uso degli smartphone, di tutto questo si è discusso ben poco”.
Esattamente come per i bambini e come per noi adulti, la vera de-digitalizzazione si fa in un solo mondo: rendendo più attrattive le attività che dovrebbero distogliere dal cellulare, mentre al tempo stesso si dovrebbe insegnare ad usare realmente bene e consapevolmente uno strumento di cui nessuno oggi può fare a meno. Ma per questo, servirebbe un vero ministro e vere riforme. Invece siamo al luogo comune. E, appunto, all’ipocrisia.
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