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Il gioco d’azzardo smuove il 7% del Pil, ma la ludopatia distrugge le famiglie: lo Stato da che parte sta?

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di Giuseppe Pignataro*

Fin dall’antichità l’uomo ha tentato la sorte gettando dadi e monete, affidando i propri destini a quella dea bendata che i Romani chiamavano Fortuna. Il filosofo Blaise Pascal, riflettendo sulla fede, formulò il celebre ‘pari’ in cui scommettere su Dio era la scelta razionale: un azzardo metafisico per la salvezza dell’anima.

Oggigiorno milioni di persone continuano a scommettere non sull’eterno, ma sul quotidiano: giocano denaro nella speranza di un colpo di fortuna che cambi la vita. Come osservava Fëdor Dostoevskij, che della febbre del gioco soffrì in prima persona, la roulette e le carte possono diventare prigioni esistenziali, dove l’uomo sfida sé stesso oltre che il caso.

Questa speranza, spesso, attecchisce più forte dove prosperano l’incertezza e il disagio. Non a caso “si gioca di più al Sud”, come rivela un recente dossier (Libro Nero della Cgil/FederConsumatori), a conferma dell’‘idea illusoria’ che una vincita possa risolvere, in un colpo solo, i propri problemi economici. L’azzardo diventa così l’ancora di salvezza per chi si sente ai margini: un tentativo di rivincita sociale ed esistenziale. Ma è un’ancora che spesso trascina a fondo. Lo Stato italiano, dal canto suo, si trova coinvolto in questo complesso gioco di luci e ombre: da un lato legislatore e arbitro morale, dall’altro beneficiario fiscale di un settore in continua espansione. Un dualismo che pone serie domande etiche e politiche.

I numeri del gioco d’azzardo in Italia hanno raggiunto proporzioni impressionanti, delineando un vero paradosso economico e sociale. Secondo il Rapporto Eurispes 2025, nel 2024 gli italiani hanno giocato oltre 157 miliardi di euro tra slot, scommesse, lotterie e altri giochi. È il mercato più grande d’Europa, superiore a quello di Regno Unito, Germania e Francia. In termini macroeconomici, significa che l’azzardo smuove circa il 7% del Pil nazionale – una cifra enorme, 20 miliardi in più di quanto lo Stato spende per l’intero Servizio Sanitario Nazionale. Su questo la spesa pro capite per ogni cittadino maggiorenne ha toccato i 3.137 euro l’anno.

Dietro questa massa di denaro si nasconde però una realtà amara: oltre 21 miliardi sono le perdite nette dei cittadini nel 2024, pari al reddito annuo di 1,15 milioni di lavoratori medi, finiti in parte nelle casse degli operatori dell’azzardo e in parte allo Stato sotto forma di imposte. Ed ecco il paradosso: nonostante la febbre del gioco continui a salire – la raccolta è aumentata di oltre il 500% in vent’anni – le entrate fiscali per l’erario crescono molto meno. In pratica lo Stato incassa solo ‘briciole’ rispetto al fiume di denaro giocato: una percentuale esigua (intorno al 7% del giocato totale), tanto che è stato detto provocatoriamente che l’azzardo somiglia a una ‘tassa occulta sui poveri’, più che a un contributo equo al bene comune.

E il danno non è solo finanziario: cresce il numero di persone affette da ludopatia, la dipendenza patologica dal gioco, con gravi ricadute personali e familiari. In Italia si stimano circa 1,5 milioni di giocatori problematici e almeno 400mila giocatori patologici conclamati. Il costo sociale – in termini di cure, sostegno alle famiglie indebitate, perdita di produttività e contrasto all’usura – è difficilmente quantificabile, ma certamente erode qualsiasi beneficio fiscale derivante dall’azzardo.

Serve allora una riflessione profonda sul ruolo dello Stato e sui valori che si intendono perseguire. Parlare di etica pubblica, di virtù e vizio, di libero arbitrio e responsabilità, significa infatti riportare la questione del gioco d’azzardo dal piano delle percentuali a quello dei principi. Significa chiedersi se la Fortuna, come cantava Virgilio, è davvero ‘cieca’ o se non abbia piuttosto le bende messe ad arte da chi ci guadagna. E significa inoltre riconoscere che dietro ogni statistica c’è un dramma umano: la pensionata che sperpera la minima al bingo, il disoccupato che si indebita sperando nel colpaccio, la famiglia che si sgretola attorno a un tavolo verde.

Uno Stato giusto non può voltare lo sguardo di fronte a queste sofferenze, né tantomeno sfruttarle come fonte di reddito. La politica – intesa nel senso più nobile, come cura della polis – deve avere il coraggio di porre limiti al mercato quando questo divora la dignità delle persone. Regolamentare, educare, prevenire: sono queste le scommesse vincenti che una democrazia matura è chiamata a fare. In gioco, è il caso di dirlo, non c’è solo il denaro, ma la visione di società e di futuro a cui aspiriamo. E in questa partita, per una volta, sarebbe bello che a vincere fossero i cittadini comuni, non il banco. Le vite e il bene comune, non la dea bendata.

*Professore Associato di Politica Economica – Università di Bologna

L'articolo Il gioco d’azzardo smuove il 7% del Pil, ma la ludopatia distrugge le famiglie: lo Stato da che parte sta? proviene da Il Fatto Quotidiano.















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