Una Marcia per la pace come la Perugia-Assisi produce onde che vanno lontano
Di fronte ai quasi 70mila sudari di Gaza, testimonianza parziale del genocidio compiuto dal governo israeliano in due anni di sterminio impunito del popolo palestinese – che deve ancora rivelare le reali dimensioni della catastrofe – ogni goccia di sangue risparmiato è sacra. Il silenzio delle armi nella Striscia e l’ingresso di acqua, cibo e medicine è ciò che le enormi manifestazioni in tutto il mondo e nel nostro Paese hanno da due anni al primo punto delle proprie agende: stop al genocidio.
Si tratta di una fragile tregua che consente il ritorno dei sopravvissuti di Gaza nella spettrale distesa di macerie nella quale sono ridotte le città, la liberazione degli ostaggi israeliani superstiti e la liberazione di un lista di prigionieri palestinesi. Ma la Striscia di Gaza rimane occupata al 53% dall’esercito israeliano, diventerà un protettorato coloniale di Trump e Blair per i loro affari, la Cisgiordania sarà sempre più occupata dai coloni e Gerusalemme est capitale di Israele. Infine Marwan Barghouti non è nella lista.
Mentre i dizionari definiscono semplicisticamente la pace solo in negativo, come mera sospensione o assenza di guerra – “fecero un deserto e lo chiamarono pace”, si potrebbe dire con Tacito in riferimento a Gaza – scrive Rete Italiana Pace e Disarmo che “non può esserci pace senza giustizia, chi ha responsabilità per i crimini di guerra deve essere giudicato; non può esserci pace e sicurezza comune senza il pieno riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato, libero ed indipendente; non può esserci pace se Israele non si ritirerà dai territori occupati illegalmente dal 1967; non potrà esserci pace se non si risolverà la questione dei profughi palestinesi”.
Cessare il fuoco è dunque condizione necessaria, ma affatto sufficiente per costruire la pace. La pace, scriveva Johan Galtung fondatore dei Peace Studies, è data insieme dalla “assenza/riduzione della violenza di qualunque genere” e dalla “trasformazione nonviolenta e creativa dei conflitti” (Pace con mezzi pacifici, 1996). Per parlare correttamente di pace e impegnarsi nella sua costruzione, scrive il filosofo del diritto Tommaso Greco, bisogna “spostare l’attenzione dal momento della forza e della coazione a quello del riconoscimento e della relazione. Dal momento patologico a quello fisiologico” (Critica della ragione bellica, 2025). Si tratta di un fondamentale lavoro di riconoscimento dell’Altro, dei suoi diritti e bisogni, di umanizzazione del nemico – già ampiamente deumanizzato – attraverso processi di disarmo, contemporaneamente, culturale e militare. Vale per il genocidio dei palestinesi come per ogni guerra.
Per questo i movimenti per la pace non possono esaurirsi nelle imponenti mobilitazioni nonviolente e nelle tante azioni di disobbedienza civile, che hanno spiazzato e aperto dei varchi nelle logiche della violenza, ma devono contemporaneamente mettere in campo quello che Mohandas Gandhi chiamava il programma costruttivo. A chi ha partecipato alle grandi manifestazioni delle scorse settimane e alla Marcia della pace da Perugia ad Assisi ricordo, come scriveva Aldo Capitini – che ne fu l’ideatore – che una marcia non è fine a se stessa, produce onde che vanno lontano. Di fronte al genocidio in Palestina, all’infinita inutile strage in Ucraina, alle decine di conflitti armati della terza guerra mondiale a pezzi, al riarmo, alla militarizzazione della scuola, dell’economia e della società italiane, il cammino sulle strade della nonviolenza deve continuare a svolgersi ogni giorno, ovunque, tenacemente e continuativamente. Assumendo precisi impegni come quelli indicati, per esempio, nel Manifesto fondativo della Rete Pace e Nonviolenza dell’Emilia Romagna, nella sua Assemblea del 5 ottobre a Parma, alla quale ho partecipato.
Ecco alcuni punti del Manifesto. Rispetto a ogni conflitto armato e a ogni atto di violenza e terrorismo, stare sempre dalla parte di tutte le vittime e dei disertori della compattezza bellica, capaci di costruire ponti e abbattere muri – come gli obiettori di coscienza russi, ucraini, israeliani e gli attivisti nonviolenti palestinesi – dichiarandosi, a propria volta, obiettori di coscienza alla guerra. Operando per il suo boicottaggio. Rifiutare e contrastare la propaganda bellica di ogni tipo, da quella pervasiva, che si manifesta attraverso i media, a quella attuata attraverso una sempre più frequente presenza delle forze armate nelle scuole e nelle università. Impegnarsi a decostruirne i presupposti e i contenuti, ad approntarne le alternative culturali e organizzative. Contrastare la ristrutturazione militare delle industrie civili e impegnarsi, al contrario, per la riconversione civile delle industrie belliche o collegate, direttamente o indirettamente, alle filiere di guerra. Impegnarsi per il superamento dello strumento militare come unica forma di difesa del Paese e dell’Europa e operare per la costruzione della Difesa civile, non armata e nonviolenta che prevede anche la costituzione dei Corpi civili di pace come mezzo di intervento nei conflitti, l’Istituto di ricerca per la Pace e il Disarmo e il diritto all’opzione fiscale per il suo finanziamento.
Insomma c’è sempre più bisogno dell’impegno costante per la pace, la nonviolenza e il disarmo di tutte e di tutti.
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