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Ammazzare Stanca Vicari firma un viaggio duro e intimo nella ‘ndrangheta degli anni ’70 attraverso la voce di un ribelle

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di Maria Antonietta Coccanari

    Da una storia vera, diretto da Daniele Vicari. 

    ‘Ndrangheta negli anni ‘70, con ricordo delle origini settecentesche, San Michele, Santi Cosma e Damiano, Sant’Annunziata e “la Santa”, tutti santi e onore, e tanti omicidi, rapine, sequestri, avvertimenti, rituali, crudeltà, perplessità, rifiuto. Rifiuto sì, profondo, perché “per far carriera bisogna ammazzare ammazzare”. Bisogna “astutare” (ammazzare in gergo), e astutare stanca. Film di denuncia e d’introspezione.

    E’ tratto dall’autobiografia di Antonio Zagari nato nel 1954, allevato nel sangue, e primo pentito di ‘ndrangheta. Fu affiliato, arrestato, e poi collaboratore di giustizia nel 1990, in verità più nauseato che pentito, abilmente instradato al cambiamento dal colonnello (Pier Giorgio Bellocchio, anche coproduttore). Le deposizioni iniziali e la loro riconsiderazione a distanza di tanti anni portarono all’arresto di centinaia di mafiosi. Morì vent’anni fa per un incidente in moto nel luogo dove viveva sotto copertura. Curiosamente il film si apre con l’assassinio di un pover’uomo su due ruote per mano del giovane Antonio & co. in un bosco. E qui il giovane ammazza e vomita. E poi continuerà ad ammazzare, a bordo della sua 128 rossa. Ma evidentemente continuerà con un conflitto. Da notare: soffriva di emofobia, paura del sangue. Ogni fobia ha psicologicamente il suo perché, e qui ha le sue conseguenze, se vogliamo anche buone. 

   Il libro venne pubblicato nel 1992. In prigione il suo pensiero si affina con la lettura, per esempio di Pavese, “Lavorare stanca”. E l’arma, da quella da fuoco, diventa la penna: per lui, già bravo a scuola in Italiano, è il modo storico e intimo di uscire da una gabbia destinale. 

   Il film è interpretato da Gabriel Montesi. Dominante la figura del padre prepotente, nell’ottima interpretazione di Vinicio Marchioni, trapiantato dalla Calabria nel varesotto dove sono nati i suoi figli. Ha un suo spazio non secondario nella malavita organizzata che colonizza il nord con molti intrighi e al bivio se scegliere o non scegliere l’affare della droga. Intrighi tessuti anche dal boss.in bianco e panama (Rocco Papaleo, mellifluo inquietante decisionale promotore di crimini). Molta violenza anche psichica, molta freddezza nel genitore, e un travaglio nei ragazzi dove si mescolano rancore e bagliori di coscienza, rivolta contro il sistema criminale ma anche contro i ruoli imposti da una gerarchia familiare che innesca il complicato tema dell’identità sociale e personale. Anche se il nuovo affare dell’eroina non risparmia la distruttività del fratello più fragile e affettivo. 

    Trova posto la delicata storia di Antonio e Angela, studentessa in Medicina, poi professionista e sua moglie, prima ignara e poi guida discreta e salda verso una nuova Weltanschauung. 

     Il ritmo coinvolgente è dato anche dalla chitarra calabrese, sorta di segno irrinunciabile dei personaggi. Tuttavia, pur fondato sulla sopracitata testimonianza documentale, il film stratificato che racconta realtà sociali e antropologiche con indubbia incisività, non fa del protagonista solo una loro espressione ma anche quella di una individualità che lo trasforma da film di genere in un’operazione più complessa e pregevole. 

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