«It’s a Sin»: la serie sull’arrivo dell’AIDS nella comunità gay è una lezione di umanità
Guardare il primo episodio di It’s a Sin significa imbarcarsi in un viaggio che ora ti porta al piano più alto del paradiso, lasciandoti intuire che d’ora in avanti tutto andrà per il meglio, e ora ti getta nelle profondità degli abissi, con la paura e la morte che arrivano e corrodono ogni cosa. Siamo nella Londra degli anni Ottanta e tre ragazzi di provincia, per ragioni diverse, decidono di trasferirsi nella capitale non solo per seguire i propri sogni, ma anche per poter essere sé stessi: tutti e tre sono, infatti, omosessuali, e tutti e tre, per un motivo o per altro, non si sono mai concessi le avventure che speravano di vivere per paura di essere scoperti, ripudiati, additati dalla comunità come pervertiti e, per questo, emarginati.
Ma la città è un’altra cosa. È lì che Ritchie arriva dopo aver lasciato la piccola isola di Wight sulla quale è cresciuto per sfondare come attore e, soprattutto, per concedersi le prime avventure sessuali: la sua famiglia lo crede eterosessuale e perfetto, senza macchia e senza peccato, e lui, per timore di deluderli e di fare i conti con il disprezzo, decide di tacere e di far credere loro quello che gli conviene credano. Cosa che, però, Roscoe non ha avuto la possibilità di fare, visto che la sua famiglia era a tanto così da riportarlo in Jamaica per convertirlo alla «normalità». Più schivo e riservato è, infine, Colin, che lascia la madre gallese per affrontare la grande città convinto che, lavorando sodo e mantenendo un profilo basso, potrà ritagliarsi il suo posto nel mondo.
A Londra le vite dei tre ragazzi si incrociano in maniera naturale: insieme ai loro amici Ash (Nathaniel Curtis) e Jill, un ragazza nera che sarà il collante di una buona parte della comunità, affittano un appartamento nel cuore della città che chiamano Pink Palace che diventa, di lì a poco, il quartier generale delle loro avventure, delle loro chiacchiere e delle loro confidenze. Fino a qui sembra di assistere a una versione vintage di Queer as folk – che, non a caso, è stata creata sempre da Russell T Davis, lo showrunner di It’s a Sin – ma qualcosa di terribile sta per affacciarsi all’orizzonte. Dall’America arrivano notizie di una strana malattia che colpisce gli omosessuali, una sorta di castigo divino sul quale Ritchie minimizza e scherza pensando che sia solo una costruzione creata ad hoc dai media per spaventarli. Al Pink Palace di questo morbo chiamato AIDS si parla sporadicamente, tutt’al più per deriderlo. Almeno fino a quando delle persone che sono molto vicine a loro iniziano a manifestare i primi segni della malattia, quegli strani sfoghi cutanei color porpora che spuntano sulla pelle e la febbre che sale e sembra non avere alcuna intenzione di scendere. Da qui It’s a Sin si trasforma da comedy brillante a drama di incalcolabile valore, traghettando lo spettatore verso un mondo che, così come il nostro, ha iniziato a fare i conti con un virus deturpato dalla disinformazione e dalla paura: armi che la società ha usato per mettere in piedi una campagna terroristica nella quale era molto difficile capire in che maniera si potesse davvero prevenire e combattere. La serie, che è stata un grande successo in Inghilterra su Channel 4 e negli Stati Uniti su HBO Max e che arriva oggi, 1° giugno, in Italia sulla piattaforma StarzPlay, alternando in maniera molto sapiente la leggerezza e il dramma, restituisce un quadro molto chiaro di una comunità sconvolta, di un gruppo di persone che prima si credeva invincibile e che ora passa la notte a ispezionarsi il corpo per capire se quelle macchie si nascondano da qualche parte.
Gli eventi narrati coprono una finestra temporale che va dal 1981 al 1991, facendoci assistere allo scorrere della vita di Ritchie (il cantante inglese Olly Alexander), Colin (Callum Scott Howells) e Roscoe (Omari Douglas) prendendo le misure con la paura e la voglia di vivere troppo, con un modo sano di resistere alla malattia e all’isteria e la rinuncia a dei punti fermi ai quali, fino ad allora, si erano aggrappati per sopravvivere. Intervistato da VanityFair.it Omari Douglas, che presta il volto a Roscue, il più esuberante del gruppo, confessa via Zoom di aver approfondito il quadro della diffusione dell’AIDS nel Regno Unito soprattutto durante le riprese della serie: «Sapevo le cose che ti insegnano a scuola, ma girare la serie è come se avesse acceso una luce. Ho iniziato a essere curioso, a documentarmi cercando di leggere il più possibile per capire cosa fosse effettivamente successo negli anni Ottanta. Ho provato a immedesimarmi in una ragazzo di quel periodo, cercando di calarmi nella sua testa e affrontando le sue stesse paure» spiega Omari che teme che, nel 2021, l’AIDS sia ancora considerato uno stigma sociale. «La cosa che più mi ha colpito delle dichiarazioni di Billy Porter, che ha affrontato il tema dell’AIDS in Pose, è stato che si vergognasse e che abbia aspettato tanto per raccontarlo. È una realtà comune a tante persone, e credo che qualsiasi sieropositivo dovrebbe cercare di parlarne liberamente per rompere questo muro». Oltre a ritenersi fortunato per poter contare su una famiglia che gli è sempre stata vicino – «Mio zio è un musicista, l’arte è sempre stata il filo rosso che ci legava. Fin da piccolissimo, quando avevo detto che sarei voluto diventare un attore, i miei mi hanno subito supportato -, Douglas non nasconde che calarsi negli anni Ottanta sia stata una delle cose più belle che It’s a Sin gli abbia dato modo di fare: «È stato pazzesco vivere per la prima volta quel periodo così eccentrico e determinante per la moda e per la musica. La cornice è fondamentale per capire come il personaggio si muoverà nella storia».
https://www.youtube.com/watch?v=IdmGUJNyCUoNon possiamo dire molto su come i cinque episodi si svilupperanno perché il rischio di spoiler è dietro l’angolo – vi basti sapere che si piangerà tanto, quindi preparatevi -, ma possiamo dirvi di tenere d’occhio un personaggio in particolare, quello di Jill, interpretata dalla bravissima Lydia West. Come scrivevamo prima, è lei la bussola che permette ai ragazzi di It’s a Sin di non smarrirsi; è lei la ragazza che prenderà a cuore le loro vite cercando di combattere il più possibile la minaccia dell’AIDS sforzandosi di decodificarla, di capire la maniera migliore per neutralizzarla. Jill è la mamma sulla quale Ritchie non ha mai potuto contare, la confidente alla quale «Gloria» (David Carlyle) rivela i suoi tormenti, e l’attivista di cui tutta la comunità omosessuale avrebbe bisogno ancora oggi. L’AIDS, dopotutto, non è mai stato solo un problema dei gay. Il personaggio di Jill, in questo senso, rappresenta tutte le persone che, indipendentemente dal fatto che la malattia potesse toccarle o meno, si sono battute per far sì che la società non emarginasse gli ammalati e non li trattasse alla stregua di animali da ammansire e, poi, da abbattere (anche qui non possiamo dire molto, ma tenete d’occhio la storia di Neil Patrick Harris, che nella serie interpreta Henry Coltrane, il mentore di Colin). Qualora non fosse chiaro, It’s a Sin non è una serie per i deboli di cuore e per le persone facilmente suggestionabili: tuttavia, è uno dei racconti più potenti e riusciti sull’omosessualità, il dilagare dell’AIDS e i pregiudizi che, a distanza di quarant’anni, continuano ad abbattersi sulla comunità e su una malattia di cui molti giovani ignorano i fondamentali. Guardarla potrebbe essere un buon modo, oltre che per riscoprire un’umanità di cui avremmo davvero bisogno, anche per documentarsi per non commettere gli stessi errori. Anche se consumerete tutti i fazzoletti che avete in casa, andate su StarzPlay e recuperatela: ne vale la pena.