Coronavirus, la forza degli internisti: «Partiti come retrovie e trasferiti in prima linea»
Il primario di Medicina Frizzelli: «In silenzio abbiamo prestato i nostri medici per alleviare il carico nelle terapie intensive»
MANTOVA. Anche loro al fronte, in trincea tutto il giorno contro il nemico invisibile. Hanno iniziato come retrovie e pochi giorni dopo erano già in prima linea. E senza cannoni, solo con le baionette, visto che di Covid si sapeva ancora molto poco.
Sono gli internisti, quelli della Medicina del Poma, quelli che hanno sudato come gli altri colleghi specialisti, ma nell’ombra. «Tutto cominciò da quel giorno, il 21 febbraio, quando giunse un’inattesa chiamata da parte della direzione sanitaria per una convocazione urgente: c’era la necessità di convertire da subito gran parte dei posti letto ospedalieri per rispondere ai bisogni dell’infezione da Covid -19».
Rino Frizzelli, primario della Medicina del Poma, parte da quel maledetto giorno per raccontare come il suo staff ha partecipato attivamente alla lotta contro il coronavirus. «Ci fu chiesto di convertire da subito una sezione da 10 letti e la settimana successiva 25 ricoverati per malattie ordinarie erano già dimessi nel giro di quattro ore, chi al proprio domicilio e chi accolto dalle strutture ospedaliere mantovane convenzionate. Solo la loro grande disponibilità permise le dimissioni senza creare grossi disagi ai ricoverati». Il quel momento la Medicina di Frizzelli aveva carico 5 sezioni con 80 posti letto e la settimana successiva sarebbero stati tutti dedicati a Covid. Ma in quei giorni tutti i reparti devono cedere personale all’emergenza coronavirus e Frizzelli cede due sezioni al Malattie Infettive con cinque medici che offrono la loro disponibilità per supportare a tempo pieno il lavoro degli infettivologi.
«Lo scenario diventava sempre più complesso e complicato – racconta il primario – con letti mai a sufficienza per pazienti sempre più gravi che richiedevano prevalentemente supporto per l’insufficienza respiratoria cercando di alleviare, quando le condizioni cliniche lo permettevano, buona parte del carico di lavoro delle terapie intensive». A fronte di tutto questo le conoscenze della malattia in quei giorni erano ancora troppo scarse e l’unico aiuto arrivava da quanto riportato in letteratura in seguito all’esperienza cinese. «Le cure erano e sono ancora empiriche – riprende Frizzelli – antimalarici, antiretrovirali, anticorpi monoclonali, plasma iperimmune e altre, recuperate sui preamboli di esperienze pregresse. Con il contributo degli infettivologi e degli intensivisti noi internisti abbiamo affrontato così la nostra battaglia, giorno per giorno, in silenzio». «Abbiamo visto malati soffrire – continua il primario – li abbiamo visti morire perché il virus li aveva devastati non solo nei polmoni ma anche nei vasi arteriosi e venosi, nel cervello, nei reni, nel fegato e nel cuore. Un’infezione subdola, che colpisce i deboli rendendoli sempre più deboli e portandoli alla morte, nei più forti rendendoli deboli fino alla perdita di 20 chili nell’arco di 2- 3 settimane. Abbiamo visto i familiari soffrire e piangere per i loro congiunti ricoverati che non potevano visitare per rischio biologico, costretti a interrompere qualsiasi rapporto ma ininterrottamente aiutati dall’intervento ammirevole del personale infermieristico e degli Oss» .
Un lavoro duro, fisico e psicologico, e rischioso, tanto che due medici e due infermieri sono caduti nella trappola del virus, ma hanno avuto la forza di sconfiggerlo e «nessuno – fa presente Frizzelli – ci potrà mai dire perché loro sì e altri no, eppure avevamo le stesse armi». Ora che il virus sembra aver attenuato la sua presa il reparto si sta ricongiungendo: «Ma ognuno di noi porta profonde ferite che solo il tempo potrà forse rimarginare, ma non potrà farci dimenticare scenari di memoria manzoniana che in tanti anni di professione non si erano mai visti».