Akbari testimone di tutti i migranti: «Stiamo ancora aspettando l’acqua»
MANTOVA. «Qualsiasi forma di approccio politico, culturale, religioso e giornalistico verso il fenomeno dei migranti è stato un fallimento. Sono passati dieci anni e l'Occidente è sordo. Gli unici che hanno diritto di parlare oggi sono i migranti». Ha esordito così, in piazza Castello, Domenico Quirico, giornalista e reporter di guerra, esperto di Medio Oriente, all'incontro che aveva come protagonista Enaiatollah Akbari. Il giovane afgano, già ospite al festival nel 2010 per raccontare la sua esperienza, scritta da Fabio Geda nel libro “Nel mare ci sono i coccodrilli”, è tornato per raccontare cosa è cambiato nel suo Paese. Un paese che aveva lasciato da bambino, grazie alla madre che lo aveva portato in Pakistan per dargli la chance di un futuro migliore, lontano dalla dittatura dei talebani, diverso da quello che avrebbe avuto a casa sua dove la guerra è una condizione permanente dall'800 e a cambiare sono solo i nemici.
Attraverso l'Iran, la Turchia, i campi di prigionia in Libia, Enaiatollah è arrivato in Italia minorenne, a Torino, ha studiato Scienze internazionali, e ha deciso di raccontare ancora le storie dei migranti in un nuovo libro, “Storia di un figlio”. «Quei pochi come lui che ce l'hanno fatta, ce l'hanno fatta da soli con coraggio - ha aggiunto Quirico - Ancora oggi, dopo dieci anni, ci sono gli scafisti. Con la sola differenza che hanno aumentato i prezzi, ci sono i naufragi, gli stessi luoghi di approdo, Pozzallo, Lampedusa, Lesbo, leggiamo le stesse cose, che noi giornalisti abbiamo raccontato male e si è aggiunta, al razzismo, la paura degli untori. E la cosa triste è che non c'è silenzio intorno a loro ma ululati».
Dar voce dunque ai migranti: «Quello che mi ha fatto innamorare di Enaiatollah è stato proprio il suo modo di volare leggero, di illuminare i sogni, anche con una certa dose di ironia - ha detto Geda - a fronte di un voyeurismo troppo spesso messo in campo». Dopo dieci anni quel ragazzino ha studiato, ha voluto capire, e sente il peso di una responsabilità nei confronti di chi, ancora oggi, come la sua famiglia, vive ancora a Kabul o nei villaggi interessati dal conflitto. Ha voluto conoscere la storia millenaria del suo Paese, potuto conoscere la libertà e la democrazia, i valori di un Occidente non troppo onesto nei confronti della sua gente ancora in attesa di un accordo di pace.
«Vorrei vivere in un luogo sicuro dove puoi correre senza incappare in una mina, dove nessuno può spararti solo perchè sei hazara - ha concluso Akbari - Sono stato più fortunato di altri e voglio dare voce a tutti loro. Abbiamo fatto la guerra coi sandali ma siamo più capaci di distruggere che di costruire perché questa condizione continua ci ha reso orfani di cultura ed è quello che sogno di poter riportare portare un giorno nelle scuole del mio Paese. Un nostro proverbio dice “aspettiamo l'acqua”, abbiamo la gola secca, non sappiamo quando arriverà, ma, voglio sperare ancora». —
Paola Cortese
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