«Manca personale»: bar e ristoranti ancora in affanno a Mantova

MANTOVA. Il tema è spinoso, ad alto tasso di generalizzazione, ma l’affanno è concreto e anche ostinato: non si trovano cuochi, aiuti cuoco e, soprattutto, camerieri. Nemmeno a Mantova, che pure se la passa meglio rispetto ad altre mete affollate di turisti, dove gli affari di bar e ristoranti hanno un respiro più stagionale e la carenza di personale rischia di mandare l’estate di traverso a molte attività. Quanto in affanno, i baristi e i ristoratori mantovani? Il rapporto tra offerte e domande di lavoro è di due a uno. Tradotto, la metà dei posti disponibili resta vacante.

C’è chi sbuffa di fronte alla prospettiva di dover lavorare la sera, pure nei fine settimana, e chi finge di accettare, o magari ci ripensa in corsa, e poi non si presenta più. Non pervenuto. La difficoltà è trasversale, rallenta sia chi propone contratti a chiamata sia chi offre l’assunzione a tempo indeterminato. Dall’analisi è escluso il sottobosco truffaldino del nero: si parla solo di lavoro regolare, retribuito almeno 8,50 euro (lorde) all’ora, con maggiorazioni dopo le 22 e nei festivi. A conti fatti, aggiungendoci una manciata di straordinari, i dipendenti a tempo pieno possono arrivare a mettersi in tasca dai 1.450 ai 1.600 euro (netti) al mese. Pure di più se si è qualificati.

«Ci sono tanti ragazzi giovani che hanno voglia di mettersi in gioco partendo da zero, ma non troviamo più trentenni che dovrebbero dare valore aggiunto al servizio – riferisce Marco Gialdi, che con il bar Sociale e il bar Venezia impiega diciotto persone tra fissi e a chiamata – la situazione è molto complessa, questi ragazzi vanno formati e, comunque, finita l’estate tornano quasi tutti a studiare».

Ma cos’è successo ai trentenni? «I due anni di pandemia hanno fatto riscoprire a qualcuno il piacere di stare a casa e il concetto di sacrificio, implicito a quello del lavoro, non è più nelle corde di molti – risponde Gialdi – ma c’è anche un’altra dinamica di cui tenere conto: dopo il primo lockdown tante persone si sono licenziate, hanno cambiato settore di lavoro per la paura di dover tornare in cassa integrazione, perché, a ogni nuova restrizione, bar e ristoranti sono stati i primi a chiudere. La mia speranza? Che tra un paio di anni le cose ricomincino a funzionare».

«Il contratto a chiamata è sicuramente un supporto prezioso per un settore come il nostro, dove spesso è difficile pianificare l’attività, ma il problema è più radicale – osserva Giampietro Ferri, referente dei ristoratori per Confcommercio – ci sono alcuni colleghi che non riescono a sviluppare i servizi perché non trovano personale con un minimo di preparazione e, soprattutto, con l’intenzione di restare al lavoro. Perché? Spesso si sente ripetere che le paghe sono basse, in alcuni casi può essere vero, ma le attività devono sostenere costi del lavoro importanti che non si esauriscono con il solo stipendio, anche per questo, come categoria, stiamo insistendo sulla decontribuzione, per liberare risorse che vadano in tasca ai dipendenti».

«Il contratto a chiamata? È quasi una necessità, un modo per ricominciare – interviene Mattia Pedrazzoli, del bar Brasile – dopo due anni di pandemia, con un orizzonte economico ancora incerto, occorre pianificare la ripresa. Serve serietà da entrambe le parti, chi cerca lavoro deve mettere in conto il sacrificio del lavoro serale e nei festivi, chi lo offre deve impegnarsi ad aumentare le ore, se le cose vanno bene».

«Ristoranti, bar, pasticcerie, imprese di pulizie, aziende e artigiani, siamo tutti in grossa difficoltà – conferma il vicepresidente di Confesercenti, Stefano Solci – non si riescono più a trovare persone che abbiano voglia di lavorare, d’impegnarsi a imparare per costruirsi un futuro. Si è persa la capacità di concepire il lavoro come sacrificio, ambiscono tutti a impieghi poco faticosi e ben remunerati, oppure all’assistenzialismo, familiare o di Stato. Esasperando il concetto, si può dire che si fa meno fatica a trovare l’amministratore delegato di una grossa azienda che un lavapiatti. Nel mio ristorante non passa più nessuno a chiedere un lavoro».

Resta sullo sfondo il nodo del reddito di cittadinanza, misura che, comunque la si pensi, si è tradotto in un elemento distorsivo del mercato, per dirla con piglio da economista. Capita anche a Mantova, e pure spesso a sentire i commercianti, che i “percettori” del reddito in questione, altro termine scabro, si offrano per lavorare in nero. Senza rinunciare all’assegno.