Pozzi per i campi, picco di richieste: «Ma il rischio è prosciugare le falde»

MANTOVA. Non c’è bisogno di andare all’altro capo del mondo per sapere come gestire l’acqua, anche in momenti di scarsità. In pianura padana, e nel Mantovano in particolare, l’esperienza e la radicata prassi idraulica ha trovato sin dal Medioevo la soluzione: irrigare usando l’acqua di fiumi e canali. Sarà poi la terra a restituire attraverso le falde quanto non usato in un circolo virtuoso ed ecologico, quanto delicato. Alterarlo, prelevando direttamente dalle falde attraverso i pozzi, vorrebbe dire desertificare i terreni.

A dirlo all’unisono sono l’Associazione nazionale delle Bonifiche (Anbi)ed uno dei massimi esperti del settore, Claudio Gandolfi, docente di Idraulica agraria al Politecnico di Milano. «Guardate cosa è successo in Lomellina – dice Gandolfi, che è anche presidente del Consorzio dell’Oglio –. Si è ritornati alle irrigazioni a sommersione perché si è scoperto che emungere dai pozzi per irrigare squilibra la circolazione sotterranea dell’acqua». Il meccanismo è semplice. I fiumi, uscendo dai laghi, sono più alti delle falde e vi trasferiscono acqua, a valle l’operazione si inverte e dalle falde l’acqua ritorna nei fiumi. «Succede così nell’Oglio, nel Mincio. – dice Gandolfi –. D’altronde il padre di tutti i canali irrigui in Europa è il Naviglio grande, nella Bassa Bresciana, scavato nel 1250. L’irrigazione fa alzare le falde perché su 100 litri che si danno al terreno, 40 li prelevano le piante, 60 restano nel terreno e pian piano ritornano ai fiumi drenate e pulite». Lo sanno bene i nostri agricoltori che, irrigando i prati stabili, mantengono il livello del lago Superiore. L’acqua in agricoltura non è buttata via, ma fa parte di un circolo virtuoso. «Sarebbe sbagliato imitare Israele, che viene citata come esempio di agricoltura che fa con poca acqua – conclude Gandolfi –. Quel sistema va bene per i deserti, e il 60% dell’acqua che usano è quella che esce dai depuratori. Anche in Italia si possono e devono usare i reflui depurati, come indicano i regolamenti europei del 2021. E averceli sarebbe positivo, soprattutto per contrastare situazioni di siccità come questa».

Ma se l’acqua non c’è, come si fa a far scattare il circolo virtuoso fiumi, irrigazioni, falde?

A rispondere è l’Anbi. Partendo da un dato allarmante: «Caldo soffocante ed assenza di piogge, dopo laghi e corsi d’acqua, stanno compromettendo anche le riserve d’acqua sotterranea del Centro-Nord Italia, proseguendo un deficit pluviometrico che si protrae dall’anno scorso e che conferma i caratteri di una siccità endemica in territori, dove serviranno anni per riequilibrare il bilancio idrologico» scrive l’Osservatorio Anbi sulle risorse idriche, in base ai dati del report settimanale.

Ma in realtà l’acqua c’è, solo che non si riesce a immagazzinare. «Non intervenire urgentemente con un piano di infrastrutture per la raccolta delle acque piovane, come i 10mila laghetti proposti da noi e Coldiretti, espone i territori al ripetersi di crisi sempre più devastanti, perché ricadenti su contesti già idricamente indeboliti», ammonisce il presidente Anbi Francesco Vincenzi. Riserve montane per rimpinguare i fiumi, quindi. «I prelievi d’acqua a profondità maggiori – aggiunge Massimo Gargano, Direttore Generale di Anbi – comportano gravi rischi per l’equilibrio idrogeologico. La risposta alla siccità non può essere la cultura del pozzo, bensì l’utilizzo razionale delle risorse di superficie, che devono essere incrementate, diminuendo la percentuale d’acqua, che termina inutilizzata in mare ed oggi pari all’89% dei circa 300 miliardi di metri cubi di pioggia, che annualmente cadono sul nostro Paese»