"Si può dare di più", del trio Morandi-Tozzi-Ruggeri, è una canzone che piace tanto a Bruxelles. Quando ci sono di mezzo i conti italiani, diventa poi un autentico evergreen da mandare in loop. Ci sono sempre compiti da fare, manovre di aggiustamento da effettuare, soldi da trovare. Per dirla con Baudelaire, sed non satiata. Mai satolla. Neppure ora che tutti gli alunni della scuola di Eurolandia si ritrovano in pagella il deficit-Pil sotto il famigerato parametro del 3% e il nostro Paese viene accreditato dalla Commissione Ue di un disavanzo dell'1,7 sia quest'anno, sia il prossimo. Stavolta è Moscovici, ma in passato - da Juncker a Dombrovskis - è stato tutto uno sventolare di cartellini all'Italia e di occhi tenuti debitamente chiusi davanti alle nefandezze contabili della Francia o al surplus pluriennale e illegale della Germania. Un metodo alla Orsato, direbbero gli interisti.Eppure, a noi, piegare sotto il 3% quel rapporto senza alcun fondamento economico è costato parecchio. Lacrime e sangue. Sotto forma di disoccupazione cronica. Crisi dei consumi. Negozi con le saracinesche abbassate. Fabbriche coi lucchetti ai cancelli. Pressione fiscale a livelli di un geyser islandese. Certo, con gli sfrondamenti della spending review abbiamo risparmiato. Se poi, causa quel continuo raschiar di barile, nelle scuole manca la carta igienica, è solo un dettaglio scatologico. E che dire, poi, dell'austerity col loden, quella del "Ce lo chiede l'Europa" e del "Fate presto"? A partire dal novembre 2011, e fino alla sua dipartita da Palazzo Chigi, Mario Monti ha deliberatamente distrutto la domanda interna e contribuito a falcidiare del 25% la produzione industriale. Una terapia d'urto per affrontare la cosiddetta crisi del debito sovrano. Peccato che il paziente-Italia sia quasi morto sotto i ferri della recessione e che il debito-Pil, durante il mandato montiano, sia lievitato da poco meno del 120% al 126,5%. Come dire: la conseguenza di politiche economiche distruttive, quando non si investe su nulla e tanto meno sul futuro, è un indebitamento montante. In base ai calcoli Ue, passeremo dal 131,8% del 2017 al 130,7% del 2018 e al 129,7% del 2019. Valori ancora elevati, ma se l'Italia è too big to fail, cioè troppo grande per finire sul binario morto della bancarotta, che dire del mondo seduto su una mina debitoria da 164mila miliardi di dollari, pari al 255% del Pil? E poi: c'è sempre qualcuno che, ossessionato dal babau del debito, dimentica come, grazie anche ai sacrifici, la penisola abbia sempre collezionato dal 1992 a oggi (con la sola eccezione del 2009) un avanzo primario (34 miliardi lo scorso anno). Ovvero, un saldo positivo tra entrate e uscite prima del pagamento degli interessi. Roba che la Germania si sogna. Il debito in ascesa, quindi, pare derivare da un'insufficiente crescita economica.Epperò - si dice - se c'è un Paese che rischia di saltare in aria se non inasprisce la Fornero (Fmi), se non fa una bella patrimoniale (Ocse) e se introduce la flat tax, quello è proprio l'Italia. Può accadere - aggiungono - quando sarà finito l'ultimo giro di giostra della Bce, il luna park monetario che ha tenuto compressi spread e rendimenti dei nostri titoli di Stato. Mai nessuno che si interroghi sugli effetti lisergici che la rimozione delle misure di aiuto avrà sulle aziende private francesi e tedesche che si sono indebitate fino al collo per sfruttare il cash a costo zero dell'Eurotower. Ma più che verso le possibili ricadute provocate dalla fine del quantitative easing di Mario Draghi, è forse meglio girare lo sguardo alle tensioni commerciali innescate dai dazi su acciaio e alluminio imposti da Donald Trump. Se il braccio di ferro tra Washington e Pechino non verrà ricomposto (ieri sono iniziati gli incontri nel Paese asiatico tra la delegazione Usa e i rappresentanti del Dragone) e se l'Europa non verrà esentata dalle tariffe punitive, è probabile un'escalation di ritorsioni. Anche sul fronte obbligazionario. Un grafico di Bloomberg mostrava ieri come le banche centrali, a mo' di avvertimento, abbiano già iniziato a vendere bond a stelle e strisce; l'ex Celeste Impero, che ha in pancia il 5% del debito Usa, ha già minacciato di disertare le aste del Tesoro americano. Così, mentre Bruxelles perpetua i suoi giochini ragionieristici, la partita doppia - e pericolosa anche per l'Italia - si gioca su ben altri tavoli.