Cara Venezia ti scrivo: cerca di resistere all’orda di turisti low cost
Non eviterà di pestarci i calli nelle calli più affollate della metropolitana di Tokyo all’ora di punta, ma è già qualcosa. Non c’è soltanto il consueto concerto modello “opera for dummies” della Fenice: a Venezia il nuovo anno porta anche l’ordinanza che da giugno vieterà alle comitive di più di venticinque persone il centro storico, Murano, Burano e Torcello.
Vietati anche i megafoni delle guide turistiche, con quell’effetto di moltiplicatore stereofonico di luoghi comuni e aneddoti per lo più inventati che contribuisce all’inquinamento acustico della veneranda città quasi più degli “O sole mio” abusivamente intonati per le comitive di orientali in gondola (e qui, fra parentesi, si dovrebbero ovviamente ricordare le canzoni da battello sì belle e perdute oppure le strofe del Tasso che i gondolieri si rimbalzavano da un canale all’altro, come testimoniano visitatori al sopra di ogni sospetto da Goethe in giù, ma Venezia in questo è pericolosa: a forza di rimpiangere il passato si risale davvero alla fondazione della città. E poi, come ammoniva un altro innamorato lagunare come lord Byron, “tutti i tempi, quando sono antichi, sono anche buoni”).
Il nuovo diktat di Brugnaro and friends arriva dopo l’introduzione del ticket d’ingresso nei giorni più turisticamente caldi, dal ponte del 25 Aprile in avanti, e anzi lo seguirà di poco perché il divieto delle comitive taglia XXL e relative amplificazioni sarà in vigore dal 1° giugno. Insomma, qualcosa si muove e magari ancora più si muoverebbe se i reggitori della città, per esempio, la smettessero di dare permessi per nuovi alberghi. Ma la consapevolezza che così non si può andare avanti sembra finalmente esserci, e la brutta fine di Venezia come una Disneyland con le pantegane al posto di Topolino forse non è irreversibile.
Dunque, ottimismo della volontà contro pessimismo della ragione. Il salvataggio di Venezia alla turisticizzazione finale è uno di quegli argomenti su cui tutti hanno le loro opinioni e nessuno sa quali siano quelle giuste.
Del resto, una città dove i piccioni camminano e i leoni volano, come diceva Cocteau, è di per sé eccezionale, pure nei suoi guai (anche se in effetti viene voglia di invitare gli amici veneziani, giustamente esasperati, a fare un giro a Firenze, nei Quartieri spagnoli di Napoli ormai diventati un’unica immensa friggitoria con contorno di B&B o nella Bologna intra muros trasformata in una piadineria a cielo aperto per rendersi conto che la monocultura turistica delle città, almeno di quelle belle, è purtroppo una tendenza nazionale e forse mondiale. Vero anche, però, che il mal comune non è comunque gaudio e nemmeno mezzo).
Insomma, le soluzioni in tasca non le ha nessuno. E tuttavia pare già un piccolo passo avanti che almeno del problema ci sia consapevolezza e che si inizi ad affrontarlo, mentre l’orologio biologico della città invecchia, lo spopolamento procede, i fast food avanzano, l’infradito trionfa e la civiltà arretra.
Certo, non si potrà mai impedire a qualcuno di vedere Venezia, nemmeno se per questo qualcuno non c’è in realtà alcuna differenza fra la Venezia “vera” e quelle plastificate di Las Vegas, convinto magari che la pizza sia un piatto tipico locale e stupito quando gli spieghi che gli spaghetti alla bolognese non esistono nemmeno a Bologna (do you know “tagliatelle”? Sì, buonanotte).
Però si potrà magari iniziare a ragionare di un turismo meno di quantità e più di qualità, che è poi l’unico compatibile con la fragilità del suo oggetto. E magari a far rispettare con più rigore certe elementari regole non tanto di civiltà turistica, ma di civiltà tout court, quindi ai mona che si tuffano nei canali o bivaccano in piazza o schiamazzano nottetempo si leva la pelle come il turco al povero Marcantonio Bragadin a Famagosta, però stavolta a suon di multe.
Si può puntare di più sulla cultura, in una città che ha ormai i residenti di un paesone ma ancora istituzioni da metropoli, fra musei e Biennali e Fenici unici e irripetibili. E sull’alta formazione, gli studenti, le università, come giustamente spiegava anni fa Paolo Baratta, una delle più lucide teste locali, in una città che ormai è diventata vecchia mentre invece è fatta per i giovani, a cominciare dal fatto che per muovercisi, sempre a piedi e sempre su e giù dai ponti, servono gambe e fiato.
L’anno nuovo è un momento di buoni propositi, che poi al 31 dicembre seguente diventano di regola cattivi rimpianti. Che Venezia vada salvata dalla turisticizzazione definitiva è ormai una consapevolezza. Che qualcosa si muova, idem. Si tratta di proseguire, di andare avanti. Anche per uscire dalla devastante narrazione che colpisce questa città almeno dall’Ottocento, quella del continuo declino, dell’inarrestabile décadence, di un’inevitabile decomposizione fra i marciumi secolari e le muffe serenissime, oltretutto aggravate dal fatto che non ci si muore più come Gustav von Aschenbach, in lini impeccabili sulla spiaggia dell’Excelsior, ma in mutande per indigestione di pizza riscaldata.
E dire che, prima delle lugubri gondole, Venezia era stata la capitale di un impero e poi del piacere, una Las Vegas sì, ma chic, colta, elegante, raffinata, sorridente.
La città di cui nessun invasore è riuscito a impossessarsi con le armi è stata conquistata dai tour tutto compreso, dalle navi da crociera, dai voli low cost. Fondata dai sopravvissuti ad Attila, deve sopravvivere agli Attila di oggi, quelli in bermuda e infradito.
“Ma dall’alghe di questi marosi / qual risorta fenice novella / rivivrai, superba, più bella / della terra e dell’onde stupor”, si canta appunto in Attila, parole di Temistocle Solera, musica di Giuseppe Verdi (1846, e proprio alla Fenice).
Della terra e dell’onde stupor, Venezia lo è da più di mille e seicento anni. Si vorrebbe che tornasse a esserlo. Augurio migliore a questa città adorata e disperante non sapremmo rivolgere.