Mestre, boom di negozi stranieri. Cinesi superati dai bengalesi

Chiudono gli italiani, aprono moldavi, albanesi, romeni. Quasi quattromila le attività gestite da extra comunitari 

Il tessuto economico della città parla sempre più straniero. Se il commercio e le attività economiche sono in crisi, vuoi per il colpo di coda del Covid, il caro-bollette, la pressione fiscale, la difficoltà a trovare manodopera specializzata e non e da ultimo la burocrazia, c’è chi si fa carico del rischio d’impresa e butta il cuore oltre l’ostacolo. In Comune di Venezia, i nuovi imprenditori hanno il volto dell’immigrato di prima e seconda generazione, dietro ogni attività economica c’è una rete famigliare che garantisce l’autosostentamento.

I numeri

Nel 2022, stando alle elaborazioni del centro studi e statistica della Camera di Commercio, le attività straniere erano 3.721. Nel 2023 mentre si contano le botteghe delle famiglie storiche che chiudono, le vetrine vuote, i muri da affittare, le imprese straniere sono passate a 3.944. Se poi guardiamo i dati al 2013, la variazione segna un più 68%.

I settori più gettonati

I settori che parlano maggiormente straniero sono quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio, con 1.125 attività, tra cui, solo per fare un esempio, la riparazione di auto. Ma basta andare al mercato coperto di Mestre, per rendersi conto di come sta cambiando la geografia dell’attività imprenditoriale in una città dove il negozio di vicinato chiuso è stato sostituito dal “casolino” bengalese o dal fruttivendolo pakistano.

La carica di bar e locali

Al secondo posto attività di servizi di alloggio e ristorazione, vedi alla voce bar, locali, take away, le più diverse formule. Il dato salta all’occhio: se le imprese totali sono 3.014, quelle straniere sono 900, ossia quasi una su tre. E poi attività di noleggio, agenzie di viaggio spesso dedicate proprio a immigrati e stranieri, caf (155). Corposo, con 877, il settore costruzioni. Nella lista figurano servizi di istruzione, attività sanitarie e di assistenza sociale, trasporto e magazzinaggio. Anche nel campo manifatturiero gli stranieri si distinguono.

I cinesi superati dai bengalesi

I bengalesi superano i cinesi. Gli imprenditori stranieri, in comune di Venezia, appartengono a 133 Paesi differenti. In testa ci sono i bengalesi, che oramai non aprono più solo macellerie e frutta e verdura, ma anche bar e locali. Da lavapiatti nei ristoranti veneziani, sono diventati titolari di attività e in qualche caso anche di cooperative che lavorano per grosse industrie. Erano 489 nel 2013, oggi sono 1066. Hanno superato i cinesi, al secondo posto, di alcune decine di unità. Di seguito ci sono moldavi, albanesi e romeni. E ancora macedoni, serbi, kossovari, francesi ed egiziani, che a Venezia si dedicano soprattutto alla ristorazione.

Una marcia in più

Emiliano Biraku, classe 1984, albanese, imprenditore nel settore della ristorazione, è stato eletto vicepresidente di Confesercenti e rappresenta un mondo importante.

Qual è la marcia in più dello straniero che apre? «Lo spirito di sacrificio, perché spesso arrivano da Paesi con difficoltà economiche e l’Italia è vista come l’America di un tempo, sono felici di avere un lavoro. E la logica demografica, perché mediante il decreto flussi e il ricongiungimento, riescono a portare i parenti a lavorare con loro».

Prosegue: «Quello che manca ai veneziani è proprio il ricambio generazionale delle imprese italiane, che non investono nel capitale umano e non prendono in considerazione gli stessi dipendenti, che poi si stancano». Chiarisce: «Alcuni connazionali albanesi gestori di pubblici esercizi prima erano dipendenti di un ristorante o di una gelateria, poi lavorando con molto sacrificio, lealtà, etica e passione verso il lavoro, lo stesso titolare gli ha offerto l’azienda, prima in affido e poi è stata acquistata, dunque è passata da un veneziano a uno straniero».

Cosa manca? «Per incentivare i giovani e avviarli al mondo del lavoro, bisogna investire nella narrazione, per poter far diventare attraenti mestieri che non hanno più appeal e dare degli incentivi importanti».

La storia di Prince Howlader, dal Bangladesh a Mestre

[[ge:gnn:nuovavenezia:14093661]]

«Rischio d’impresa significa essere disposti a fare sacrifici e mettere in conto di non guadagnare fino a che non si macina». Prince Howlader, 31 anni appena compiuti, bengalese, è arrivato in Veneto nel Duemila, quando era ancora solo un bimbo. Oggi ha tre uffici che forniscono servizi a italiani e ai connazionali, uno a Mestre e due in provincia di Treviso, è presidente dell’associazione Youth’s For Umanity, Giovani Per l'Umanità, e in città è conosciuto da tutti per il suo impegno. Si definisce attivo nel sociale, ed è imprenditore nel sangue. In questi giorni, è impegnato nel torneo di Badminton, sport amatissimo dai bengalesi, completamente auto finanziato.

«Il torneo è iniziato il 17 febbraio e terminerà il 3 marzo» spiega «ci sono persino tre squadre che arrivano dalla Svezia. E poi da tutta Italia». Si gioca all’ex Edison di Marghera. «Qualche giorno fa sono arrivati in 70 a vedere il torneo, tutti italiani, una sorta di tour per capire come vive la comunità bengalese, e sono rimasti molto colpiti».

Quali studi ha portato a termine?

«Ho fatto delle scuole che mi hanno permesso di diventare tecnico informatico e sistemista, ho frequentato il Musatti e successivamente ho lavorato un anno come agente per un istituto di credito, nella sicurezza informatica della Regione e 12 anni sempre nel campo dell’informatica per l’Ospedale». Azienda per la quale Howlader lavora ancora.

A quel punto ha deciso di mettersi in proprio e di iniziare una attività tutta sua. «Lo stipendio non mi bastava per vivere, così ho scelto di dare una svolta alla mia vita e ho aperto l’ufficio in via Poerio».

In uno dei tanti negozi lasciati vuoti, dove sono passate numerose attività che poi hanno mollato. Prince ha riacceso le luci. «Il mio è un ufficio di consulenza e servizi alla persona, ci occupiamo di ogni genere di pratiche, ma anche di servizi e applicativi che forniamo a privati come cliniche. Al contempo lavoro sempre per la mia vecchia azienda».

Da Mestre Prince ha aperto con suo fratello, con il quale lavora, altri due uffici in provincia di Treviso, uno dei quali è un patronato: dà lavoro a 4 persone, tutte assunte e in regola. Per il futuro ha numerosi progetti, che riguardano la comunità. Qual è il segreto del successo dell’imprenditoria bengalese? «Tanti pensano che non paghiamo le tasse, o i dipendenti. Al contrario. Il fatto, semmai, è che per il primo anno di apertura non ho mai tenuto per me lo stipendio, ho fatto sacrifici, ho pagato i fornitori, l’affitto, non ho percepito nulla. Ho avuto unicamente spese. Solo successivamente ho iniziato a guadagnare. E questo è possibile perché dietro c’è una comunità unita e compatta. L’italiano spesso vuole guadagnare subito, senza sacrificio».