Quel gioiello geometrico da far rivivere
Aveva ragione. Da più di quarant'anni, un grande pittore, Carlo Guarenti, mi parlava del Triangolo Barberini. Mi esortava ad andare a vederlo come un raro luogo dello spirito. Non un capriccio architettonico, come io lo pensavo. C'ero andato vicino, e in anni ancor più lontani. Entriamo nella notte dei tempi. Sarà stato il 1973, mi ero iscritto al corso di studi di architettura Andrea Palladio a Vicenza e avevo iniziato a studiare il grande architetto con una passione travolgente, di palazzo in palazzo, di villa in villa, anche di notte, guardando gli edifici alla luce dei fari dell'automobile. E un giorno mi ero spinto fino a Meledo (Vicenza) per cercare i resti di villa Trissino, una delle più grandiose invenzioni di Palladio, rimasta largamente incompiuta.
La visita era simile a quella di un sito archeologico, alla ricerca di basamenti e di qualche residua colonna. Nei Quattro libri dell'architettura Palladio afferma di aver cominciato a Meledo (oggi frazione del comune di Sarego) una fabbrica di villa per i fratelli Ludovico e Francesco Trissino, figure di primo piano dell'aristocrazia vicentina e committenti palladiani non solo a Meledo. L'incisione del trattato restituisce una struttura imponente, articolata su più livelli, palesemente ispirata allo sviluppo dei complessi acropolici romani antichi, e che riprende il corpo centrale circolare sormontato da cupola proprio della quasi coeva La Rotonda dello stesso Palladio.
Non è possibile affermare se tale progetto avesse reali possibilità di essere realizzato; esistono però tracce evidenti di un inizio di progetto palladiano nelle imponenti fondazioni in pietra degli edifici lungo il fiume e nelle due «barchesse» con colonne tuscaniche di ottima fattura. Mi convinsi, dopo quella visita, che Palladio si era direttamente ispirato al grande Santuario della Fortuna Primigenia a Preneste, ora Palestrina, il massimo complesso di architettura tardo repubblicana dell'Italia antica.
Il santuario, come la villa di Meledo, si articola su sei terrazze artificiali edificate sulle pendici del monte Ginestro, collegate tra loro da rampe e scalinate di accesso. Partii, come invasato, per Preneste, e studiai ogni pietra, sulle orme di Palladio, che certamente aveva visitato il Santuario tra il 1541 e il 1547, in uno dei suoi tre viaggi a Roma.
Scrissi così il mio primo saggio di storia dell'arte, leggendo sulle pietre il significato del Rinascimento. Palladio, come e più di Raffaello, fu l'interprete, nel tempo moderno, della grandezza degli antichi. Il dolore che Raffaello e Baldassarre Castiglione avevano espresso a Leone X si trasforma in euforia delle rovine in Palladio.
Le parole di Baldassarre Castiglione potrebbero essere le sue: «Quanta calce si è fatta di statue e d'altri ornamenti antichi! Che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch'ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata... Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, per testimonio del valore e della virtù di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtù gli spiriti che oggidì sono tra noi non sia estirpato, e guasto dalli maligni e ignoranti; che pur troppo si sono infin qui fatte ingiurie a quelle anime che col loro sangue partoriscono tanta gloria al mondo».
Fu un'esperienza fondamentale, ma così assoluta da non lasciare spazio ad altro. Nel museo, dentro gli ambienti del Palazzo Barberini costruito sulle rovine del santuario, c'era anche il meraviglioso mosaico del Nilo, indelebile nella memoria. Ma tanto era il fuoco di quel confronto tra antico e moderno, che non ebbi occhi, né esterni né interni, per altro. Non mi spinsi, né allora né per i decenni successivi, verso il «Triangolo» che, per lunghi anni, mi sembrò un'onirica ossessione di Guarienti.
Invitato qualche giorno fa a vedere il Palazzo, nelle stanze private, in restauro, dal principe Benedetto Barberini, a Palestrina, dopo lo stupore per la cappella di Santa Rosalia, disegnata da Francesco Contini e sorprendentemente ricca di marmi preziosi e di sculture della scuola di Bernini, opera di Bernardino Canetti, impresa travolgente e vertiginosa, finalmente mi sono spinto, poco lontano, fino al mitico «Triangolo».
In aperta campagna, in un'area di rispetto, un vasto prato, purtroppo circondato da degradanti capannoni e architetture popolari, solitaria, come posata sul verde, sta un'architettura perfetta, un teorema architettonico che, benché degradato è perfetto, espressione di un pensiero che si fa spazio.
Un casino di caccia per i Barberini, isolato rispetto ad alcuni semplici corpi di fabbrica di architettura funzionale per utilità pratiche, residenziali ed agricole. Il «Triangolo», nella sua architettura semplice e potente, dialoga a distanza con le architetture visionarie del Bosco sacro di Bomarzo, volute da Vicino Orsini dandy irraggiungibile. Ma le architetture di Bomarzo sono impraticabili, sono sogni, bizzarrie, parco delle meraviglie. Il Triangolo invece è un luogo della mente, uno spazio vertiginoso, abitabile da menti elevate, che trovano nell'architettura un equilibrio di pensieri alti.
Tradizionalmente la costruzione dell'edificio è attribuita all'architetto Giovan Battista Contini, architetto di casa Barberini, figlio di Francesco, già impegnato per i principi con alcune importanti costruzioni della città. Il Triangolo è un trionfo della geometria e del calcolo. È costitutito da due triangoli equilateri di diverse dimensioni che generano nella parte centrale un esagono irregolare, il quale, fuoriuscendo, dà origine a un'altana. Gli angoli dell'altana sono decorati da curiose sculture di guerrieri armati.
La perfetta geometria dell'architettura condiziona anche l'esterno, definendo la struttura del giardino disegnato a triangoli per formare poi, ancora una volta, un esagono. Particolare è la sensazione che questo edificio suscita. Secondo il punto di vista, da cui l'edificio viene osservato, si ha l'impressione che questo tenda a ruotare, contribuendo a confondere lo spettatore trascinandolo in un vortice che provoca smarrimento.
Sorpresa, stupore e sconcerto vengono anche per interpretare l'edificio, poiché questo, di volta in volta, ci restituisce un'immagine diversa: un complesso a scopo difensivo, una residenza agricola, un casino di caccia o ancora, una residenza extraurbana dove poter godere amori in libertà. Le stanze perfette, con il motivo di un triangolo non capriccioso ma abitabile, teoremi di vita, dalle stanze e dalle terrazze non si vede quello che sta intorno ma quello che sta dentro, in una idea di perfezione non inferiore a quella degli eletti spazi palladiani.
S'ipotizza, a causa dello stemma araldico che domina il portale d'ingresso, che unisce la «torre» Giustiniani e le «api» Barberini, che possa essere stato costruito intorno al 1653, quando Maffeo Barberini, per rappacificarsi con i Pamphilj e recuperare parte del patrimonio di famiglia, messo sotto sequestro dalla Camera apostolica per le tangenti prese dal suo parentado durante la guerra di Castro, sposò Olimpia Giustiniani, pronipote di Innocenzo X.
Nel Triangolo il pensiero si fa architettura, senza mediazioni, come un trattato di Cartesio o di Spinoza. Con la stessa regalità del federiciano Castel del Monte. Potremmo dire che il triangolo è una architettura «ordine geometrico demonstrata», come l'Etica di Spinoza. E qui la mente trova una dimensione superiore. E si ricongiunge con il mondo delle idee.