Gael Monfils, l’ultimo sorriso dei moschettieri
Ci sono campioni che si ricordano per quello che hanno vinto e altri che restano nella memoria collettiva per quello che hanno fatto vivere. Gael Monfils appartiene alla seconda categoria, è stato il più leggero e al tempo stesso il più pesante dei moschettieri francesi: capace di rendere serio il gioco e giocoso lo sport, con un corpo da pantera e un sorriso da ragazzo che non ha mai smesso di divertirsi. La sua carriera si chiuderà nel 2026, a quarant’anni, con l’annuncio arrivato sui social come piace ai tempi moderni, senza conferenze stampa (non sia mai…) solenni né tappeti rossi.
Un messaggio semplice: “Il 2026 sarà la mia ultima stagione”. E in quelle parole non c’era malinconia, piuttosto la voglia di salutare il tennis con la stessa leggerezza con cui lo aveva attraversato. Ventidue stagioni da professionista, 13 titoli ATP, 583 vittorie sul circuito maggiore, ma i numeri non bastano, non possono bastare per raccontare Monfils. Lui ha lasciato immagini: i tuffi a Rotterdam, i salti a New York, la danza a Parigi, il recupero impossibile che diventava highlight virale, quando i social ancora non esistevano, ma con lui sono nati “hai visto il recupero di Monfils? Pazzesco…”. “La Monf”, come lo chiamano in Patria, ha trasformato il tennis in spettacolo e se stesso in un artista più che in un campione. Eppure, dietro la leggerezza, c’era una sostanza che gli ha permesso di restare competitivo fino a 39 anni.
Dai quartieri di Parigi ai riflettori del mondo
Cresciuto nella banlieue parigina di Courneuve, figlio di un ex calciatore della Guadalupa e di una madre martinicese, Monfils ha portato sui campi da tennis un’energia diversa. Quando entrava in campo, lo faceva a ritmo di musica: sembrava danzare più che giocare. Nel 2004 vinse tre titoli junior dello Slam (Australian Open, Roland Garros e Wimbledon), perdendo solo allo US Open. L’ingresso tra i professionisti fu immediato e fragoroso. Nel 2005, a 19 anni, conquistò il suo primo titolo ATP a Sopot. Poi arrivarono le semifinali Slam (Roland Garros 2008, US Open 2016), le finali nei Masters 1000, i titoli a Washington e Rotterdam e la scalata fino al numero 6 del mondo nel 2016. Ma più che i traguardi, restava impresso lo stile: un tennis atletico, esplosivo, fatto di scatti e recuperi che sembravano impossibili.
Tre partite per tre Monfils diversi
Per raccontare Gaël Monfils, vale la pena scegliere tre partite. Non le uniche, certo, ma quelle che restituiscono il senso di un viaggio, partendo dalla fine e risalendo la corrente fino all’arrivo dirompente di questo funambolico demone del tennis
Il Monfils adulto – Cincinnati 2024
Sono 37 gli anni a referto, il corpo segnato da mille infortuni e ripartenze. Con Carlos Alcaraz, che dominava già la scena, sembrava una missione disperata. E invece fu un capolavoro. Perso il primo set 4-6, Monfils si aggrappò al match, difendendo e contrattaccando come se avesse dieci anni di meno. Vinse il tie-break del secondo set e poi chiuse 6-4 al terzo, lasciando lo spagnolo stordito e il pubblico in estasi. Non era solo un successo prestigioso: era il segnale che quel fuoco, quello degli agonisti veri, dentro non si era mai spento.
Il Monfils della Davis – Lille 2014
Una delle partite più eclatanti resta il secondo incontro nella finale di Coppa Davis con la Svizzera. Con la Francia sotto 0-1, serviva un mezzo miracolo. Arrivò il suo, con Roger Federer (c’è da dire non in splendida forma, ma pur sempre Roger). In tre set secchi (6-1, 6-4, 6-3) demolì letteralmente lo svizzero (provocando un gran dolore in chi vi scrive, ma questo è un altro discorso…), che pure quell’anno aveva vinto due Masters 1000 ed era stato finalista a Montecarlo. L’atmosfera dello stadio Pierre Mauroy fu da brividi: ventimila francesi che accompagnavano ogni punto come un gol allo Stade de France nel 1998, in un tripudio di tricolori transalpini. Quella vittoria sembrò riaprire la finale, che due giorni dopo sarebbe diventata però un trionfo svizzero. La sua vittoria segnò uno dei momenti più importanti della sua carriera e per una notte, la Francia intera sognò l’impresa.
Il Monfils che stupì il mondo – Roland Garros 2008
C’era ancora l’incoscienza dei vent’anni, la leggerezza di chi non ha nulla da perdere. Nei quarti di finale del Roland Garros affrontò David Ferrer, specialista della terra battuta. Lo travolse con un tennis esplosivo, vincendo 6-3, 3-6, 6-3, 6-1. Quel successo lo proiettò in semifinale, persa poi con Federer. Ma da quel giorno i francesi capirono che Monfils era diverso: più che un giocatore, un funambolo capace di cambiare il ritmo di una partita in un solo scambio.
Il cuore dei moschettieri
Monfils non è stato solo. Ha fatto parte di una generazione che la Francia ha amato e rimproverato allo stesso tempo: lui, Tsonga, Gasquet e Simon. I “quattro moschettieri” del tennis transalpino. Ognuno con uno stile diverso: Tsonga, la potenza pura; Gasquet, il talento del rovescio a una mano; Simon, la tattica e la pazienza; Monfils, lo spettacolo e l’imprevedibilità.
Insieme hanno vissuto momenti alti e bassi. Hanno perso due finali di Davis (2010 in Serbia e 2014 contro la Svizzera) ma hanno riportato la coppa a casa, anche se quella volta Gael non c’era: la caviglia aveva detto no. Uno di quegli infortuni che segnano una carriera.
Tsonga, ritirato nel 2022, ha raccontato così la scelta di Monfils: “Ogni volta che uno di noi si ferma, è come perdere un pezzo di sé stessi. Siamo cresciuti insieme, ci conosciamo dall’adolescenza. La sua decisione non è solo un addio al tennis: è un piccolo lutto per tutti noi. Lui ha sempre avuto la passione, e questa lo ha tenuto in campo fino a quarant’anni. Non so cosa farà dopo, ma so che farà ridere e sorridere, come ha sempre fatto anche nei momenti più duri”.
Gasquet, con la sua longevità silenziosa, ha spesso detto che Monfils era “il più amato dal pubblico, quello che faceva accendere lo stadio”. Simon lo ha definito “un enigma: non sapevi mai cosa avrebbe fatto e spesso nemmeno lui lo sapeva. Ma questo era il suo bello”.
Un palmarès che non basta a raccontarlo
Monfils ha chiuso (o chiuderà… chissà) con 13 titoli ATP, tre dei quali 500 (Washington 2016, Rotterdam 2019 e 2020). Ha raggiunto tre finali nei Masters 1000, due semifinali Slam, 583 vittorie nel circuito maggiore. Ha battuto 38 top 10 e 16 top 5. È stato numero 6 del mondo, ha chiuso otto stagioni in top 20. Numeri da grande, ma non da fenomeno. Eppure, nessuno lo giudica solo da quelli. Perché Monfils era, ed è, intrattenimento puro. In campo non si risparmiava mai, anche se a volte sembrava il contrario. Si prendeva il tempo per un sorriso, per un gesto al pubblico, per un colpo improbabile. Qualcuno lo ha criticato, dicendo che non aveva mai spremuto fino in fondo il suo talento. Forse è vero, ma forse è proprio per questo che lo si è (tanto) amato: non ha mai voluto snaturarsi, non ha mai giocato “da ragioniere”. Ha scelto di restare Monfils, fino alla fine.
Un addio che sa di tournée
Il 2026 sarà il suo ultimo giro in giostra. Una stagione che assomiglierà a una tournée d’addio, con ogni torneo trasformato in una festa. Non sarà un addio malinconico, ma un arrivederci con il sorriso, perché questo è Monfils. La sua carriera non verrà ricordata per i grandi titoli mancati, ma per le emozioni regalate, perché alla fine, resta l’immagine di un uomo che ha fatto divertire, non sempre vincente, non sempre continuo, ma sempre vero. È stato il più sorridente dei moschettieri, capace di accendere una folla con un recupero impossibile e di spegnere Federer in una finale di Davis vincendo meno di quanto avrebbe potuto o meritato, ma regalando più emozioni di tanti campioni maggiormente decorati. Ha dato più di quanto ha avuto indietro e forse lo sia ama anche per questo.
Allez la Monf!