Da New York a Torino: viaggio dentro la trasformazione del servizio di Sinner
Quando Jannik Sinner esce dalla sala stampa di Flushing Meadows, dopo la finale persa contro Carlos Alcaraz a New York, la sensazione è duplice: da un lato la delusione per un titolo sfiorato, dall’altra la consapevolezza che lì, in quella sconfitta, c’è un punto di svolta. Le cifre parlavano chiaro: 48% di prime palle in campo, un dato che non appartiene a un campione del suo calibro. E infatti Jannik, quella sera, apre una finestra sul futuro:
“Ero troppo prevedibile… Quando servi sotto il 50% sei sempre sotto pressione, soprattutto contro giocatori come Carlos o Novak. Cambierò alcune cose, anche piccole, ma che possono fare grandi differenze”.
Da quella promessa di settembre nasce il Sinner che dominerà il finale di stagione: Pechino, Vienna, Parigi-La Defense e infine Torino. Una corsa continua, un’evoluzione costante, un fuoco acceso proprio da quella fragilità esposta a New York.
Torino, partita dopo partita: il servizio che cambia faccia a Jannik
Le Finals, lo si sa, sono un torneo a parte rispetto a tutti gli altri. E questo per svariati motivi: dal formato, al livello dei giocatori, il tornaconto di un’intera stagione. Per Jannik Sinner sono state anche altro: una radiografia in tempo reale della sua metamorfosi, match dopo match, turno dopo turno, il servizio è diventato il filo rosso che ha cucito insieme prestazioni diverse per scenario ma identiche per solidità, fino alla finale con Alcaraz.
Nel debutto con Auger-Aliassime (7-5 6-1) Jannik parte con una leggerezza nuova rispetto ai momenti complicati vissuti a New York: 71% di prime in campo e un impressionante 89% di punti vinti con la prima. È il primo segnale che il lavoro tra fine estate e autunno sta già producendo frutti concreti.
Con Zverev (6-4 6-3) cambia l’avversario ma non l’efficienza: 71% di prime, 83% dei punti con la prima. Davanti a un giocatore che nella partita in questione ha giocato benissimo in risposta, Sinner non concede quasi nulla: il servizio diventa porto sicuro, rifugio e trampolino insieme. Esempio? Sette palle break per il tedesco, sette prime vincenti di Sinner.
Il terzo atto, contro Shelton (6-3 7-6), è una sfida di identità tennistiche. Uno dei big-server del circuito spinge, Jannik risponde con la qualità: 75% di prime, 81% dei punti con la prima. Non è potenza, è precisione. È la scelta consapevole del team declinata su Jannik.
La semifinale con de Minaur (7-5 6-2) unisce dato tecnico e narrativa. L’australiano è tra i giocatori più rapidi e fastidiosi del tour, eppure per Sinner resta un territorio dominato: tredici vittorie su tredici. Anche qui i numeri confermano la supremazia: 75% di prime, 84% dei punti vinti con la prima. Sinner resta l’orizzonte di de Minaur.
La finale con Alcaraz (7-6 7-5) rompe un po’ la narrazione di questo schema. Le percentuali non sono più “monstre”: 55% di prime nel primo set, ancora meno nel secondo, 8 ace e 5 doppi falli. Eppure Sinner vince. È proprio quando la prima lo abbandona che emerge la nuova frontiera del suo tennis: una seconda coraggiosa, pesante, indirizzata con lucidità. Quella che, sul set point per Carlos, diventa un marchio di fabbrica: 187 km/h sul rovescio dello spagnolo. È lì che si chiude un cerchio e, allo stesso tempo, inizia un’altra partita.
Il momento simbolo: quella seconda che vale un titolo
La scena è semplice da raccontare e difficilissima da vivere. Primo set della finale, 6-5 Alcaraz, set point. Sinner sbaglia la prima. Poi mette la seconda più importante dell’intero torneo: veloce, profonda, indirizzata come un proiettile. Carlos non la controlla. L’arena esplode.
E Jannik, più tardi, spiega tutto così: “Avevo due o tre opzioni. Ho scelto quella rischiosa ma sicura. A volte serve coraggio, a volte fortuna… ma te la devi meritare. Ho pensato: vado e perdo questo punto, piuttosto che farlo vincere a lui”.
Non serve altro per capire quanta strada sia stata fatta da New York.
Dentro il laboratorio: dove nasce la nuova arma
Il servizio di Sinner non è semplicemente migliorato: è stato smontato e ricostruito pezzo per pezzo, in un lavoro di cesello che ha coinvolto ogni dettaglio del gesto. Chi ha seguito da vicino gli allenamenti, come ho avuto la fortuna di fare io stesso nei momenti clou della stagione, ha percepito con chiarezza quanto l’approccio di Simone Vagnozzi al tema sia diventato sempre più maniacale dopo New York, quasi ossessivo nella ricerca del ritmo giusto, dell’angolo perfetto, del tempo ideale di caricamento, del lancio palla. Il suo supporto è stato fondamentale: senza quella meticolosità, senza quella capacità di rendere comprensibili e immediatamente applicabili micro-aggiustamenti di grande impatto, l’evoluzione di Jannik non avrebbe trovato una traiettoria così netta.
Non è un caso che proprio Vagnozzi, ripercorrendo i mesi successivi allo US Open, abbia spiegato come il team avesse individuato “alcuni problemi soprattutto sul servizio” e come da lì fossero partiti “cambiamenti nel movimento e nel ritmo“, con un Sinner capace di servire “davvero bene da Shanghai in poi“. Anche la finale di Torino, dove Alcaraz ha provato a confonderlo modificando la propria posizione in risposta, è diventata un terreno di verifica immediata della sua capacità di adattarsi: “Abbiamo cambiato tante cose dopo New York – ha raccontato Vagnozzi – e Jannik è stato velocissimo nell’assorbirle”.
Accanto a lui, Darren Cahill ha sottolineato come tutto nasca da un principio semplice: “Nel tennis hai controllo su un solo colpo: il servizio“. Da qui la necessità, ribadita dal coach australiano, di non limitarsi a inseguire una percentuale più alta di prime (“Se fosse stato quello l’obiettivo, gli avremmo detto di servire più piano“) ma di aumentare velocità e precisione, andando a cercare zone più vicine alle righe per ottenere “molti più punti gratis“.
Il lavoro combinato di Cahill e Vagnozzi ha prodotto una vera riscrittura tecnica: non un ritocco, non un aggiustamento, ma un nuovo inizio. E i risultati, da Pechino a Torino passando per Vienna e Parigi, sono la prova più eloquente che in quel laboratorio il futuro era già cominciato.
La stagione si chiude col servizio al comando
Da quella finale di New York, Sinner ha completato la stagione perfetta: Pechino (500), Vienna (500), Parigi-Bercy (1000), Torino (Finals). Un 58-6 che è al tempo stesso un record e un manifesto.
E proprio Torino è stata la sintesi perfetta della sua rinascita tennistica: percentuali altissime quando servivano, coraggio quando mancava la prima, lucidità nel momento decisivo.
“Siamo molto felici, ma c’è ancora tanto da lavorare“, chiude Vagnozzi.
E forse è questa la parte più interessante: Sinner è migliorato enormemente, ma non ha ancora finito di crescere. Nel tennis moderno il servizio è tutto; Sinner lo sa, e dopo quel pomeriggio americano, lo ha ricostruito, lo ha trasformato nella sua arma principale. Il resto è semplicemente la più naturale delle conseguenze.
