L’abbiamo studiato? Ora leggiamolo. Perché il Canzoniere non è un romanzetto d’amore
La seconda puntata del viaggio alla scoperta del poeta nel 650° della morte
Dal 1° gennaio di quest’anno, per celebrare il 650° anniversario della morte di Francesco Petrarca (19 luglio 1374), ho intrapreso una strana maratona di lettura. Ogni giorno, sulla mia pagina Facebook, posto una poesia del Canzoniere, accompagnata da brevi note di lettura. Le poesie sono 366, cioè una per ogni giorno dell’anno più una di introduzione generale: poiché il 2024 è un anno bisestile, se Dio mi dà lena e salute finirò esattamente il 31 dicembre.
Leggere o studiare?
Racconto questa piccola follia personale perché il Canzoniere, come la Commedia, il Decameron, l’Orlando furioso e in generale i classici della letteratura italiana, sono letti da pochissimi, mi verrebbe da dire quasi da nessuno. Li si studia, certo, a scuola e all’università. E da questi studi (parlo di quelli degli specialisti, del ricercatori) sono nati altri libri importanti e a volte geniali. Ma la lettura, cioè quell’attività che compiamo liberamente, per piacere, o per curiosità, o per vedere “come va a finire”, sembra limitata a opere più recenti, e per lo più in prosa. È in parte inevitabile, considerando la distanza culturale e linguistica tra noi e il Medioevo, tra noi e il Rinascimento. Ma non dovremmo mai dimenticare, soprattutto quando le affrontiamo a scuola, che queste opere sono state concepite dai loro autori perché fossero lette, e non studiate; perché procurassero piacere a un pubblico di lettori e di lettrici (spesso più di lettrici), e non perché fossero analizzate e compulsate dagli storici e dai filologi.
Non è mia intenzione fare l’elogio dell’ingenuità. È evidente che per leggere i versi di Petrarca qualche nota esplicativa è necessaria. E mi guarderei bene dal ridurre il Canzoniere a un romanzetto d’amore. Ma entrare nel libro come se fosse la prima volta, seguendo le indicazioni di percorso dell’autore, sia pure con gli aiuti necessari per non smarrirsi, è un’attività che riserva molte sorprese interessanti.
Varietà tematica
Nel primo sonetto, quello di introduzione generale, Petrarca presenta l’opera al lettore parlando di “rime sparse” (cioè poesie isolate, che non costituiscono un poema unitario) e del loro “vario stile”. In che cosa consiste questo “vario stile”? Petrarca ce lo mostra subito, se leggiamo di seguito le prime dieci o quindici poesie dell’opera.
Si tratta di poesie estremamente diverse fra loro, e ci costringono a mettere da parte alcuni pregiudizi, prima fra tutte che il Canzoniere sia un’opera ripetitiva, tutta dedicata all’amore infelice per Laura. Alcune di queste poesie parlano d’amore, certo. Non arriverei a sottoscrivere la radicale affermazione di Umberto Saba, secondo il quale “non c’è, in tutto il lungo Canzoniere, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore”. È vero però che l’amore non esaurisce nemmeno lontanamente i temi dell’opera. La poesia n. 7, per esempio, è un elogio di chi rifiuta di abbandonarsi alla pigrizia e si dedica a magnanime imprese (intellettuali). La n. 8 e la n. 9 sono “biglietti” che accompagnano due doni, rispettivamente un paniere di colombe e uno di tartufi. La n. 10 è una sorta di “dedica” a Stefano Colonna il Vecchio, il capo della potente famiglia al cui servizio Petrarca rimase per oltre vent’anni. E proseguendo troviamo poesie politiche, di invettiva contro la corruzione della Chiesa avignonese e di esortazione ai governanti italiani; poesie religiose, fino alla preghiera alla Vergine che conclude l’opera; e poi lettere agli amici; riflessioni sull’arte; descrizioni di sogni.
Un’altra quasi-certezza che converrà mettere da parte riguarda il carattere “lirico” di queste poesie. Alcune sono poesie civili, altre sono poesie filosofiche, altre ancora hanno un carattere galante (direi: salottiero, se nel Trecento fossero esistiti i salotti). Se poi pensiamo che “lirico” sia sinonimo di monologo interiore del poeta, ebbene anche questo va ripensato: Petrarca si rivolge ora a “Voi” lettori (n. 1), ora alla donna amata, ora a un imprecisato “gentile spirto” (n. 7), ora ai destinatari dei suoi doni (nn. 8 e 9), ora a Stefano Colonna (n. 10), ora ad amici, poeti, artisti, conoscenti vari. Spesso infine il poeta parla di sé in terza persona, e non in prima come ci si aspetterebbe.
Varietà stilistica
Ma Petrarca parla specificamente di “vario stile”. Come mai? Non era Dante quello sperimentale, aperto a ogni esperienza, anche la più estrema (le famose “parolacce” o i famosi neologismi della Divina Commedia), di contro alla regolatezza quasi schizzinosa di Petrarca, alla sua levigatezza un po’ troppo ripetitiva? Proviamo a leggere.
Petrarca usa forme di origine popolare, come la ballata e il madrigale, e usa la forma più difficile, elitaria e cervellotica di tutte, la sestina inventata dal provenzale Arnaut Daniel. Sa essere lineare, piano, limpidissimo: “Solo et pensoso i piú deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti”; “Erano i capei d'oro a l'aura sparsi / che 'n mille dolci nodi gli avolgea”. Ma sa essere anche oscuro, intricato, complesso, come quando fa coincidere tutta una poesia con un solo lungo periodo pieno di incisi e di subordinate (n. 9, n. 12 ecc.). E non rifugge da arditezze metaforiche e simboliche che sembrano anticipare la poesia contemporanea più allusiva e indecifrabile: “et è sí spento ogni benigno lume / del ciel, per cui s'informa humana vita, / che per cosa mirabile s'addita / chi vòl far d'Elicona nascer fiume” (n. 7), cioè: gli influssi positivi delle stelle sulla nostra vita (che contribuiscono a dar forma alla vita umana) sono indeboliti al punto che chi si dedica alla poesia (chi vuol far nascere un fiume dall’Elicona, il monte delle Muse) è considerato un fenomeno straordinario. E, sorpresa! sa anche scherzare, perché la poesia è anche gioco, divertimento verbale, leggerezza: ed ecco la vera e propria sciarada con cui ci viene rivelato il nome di Laura (Laureta, alla provenzale): “Quando io movo i sospiri a chiamar voi, / e 'l nome che nel cor mi scrisse Amore, / LAUdando s'incomincia udir di fore / il suon de' primi dolci accenti suoi. // Vostro stato REal, che 'ncontro poi, / raddoppia a l'alta impresa il mio valore; / ma: TAci, grida il fin, ché farle honore / è d'altri homeri soma che da' tuoi” (n. 5).
Niente male, per un noioso classicista!