La grandeur della cucina mantovana? Dopo sessant’anni sembra esaurita
foto da Quotidiani locali
Scrivo una cosa indigesta: la spinta propulsiva della grandeur della cucina mantovana si è esaurita. Per grandeur non intendo tradizione e qualità, ma il momento incantato. Rispetto al fulgore databile tra fine del Novecento e secolo nuovo molte stelle gastronomiche sono tramontate e contemporaneamente il rilievo delle guide è ormai determinante come un brodo ristretto. È cambiato il mondo.
Banchetto a Palazzo Te
Questo bilancio sullo stato della cucina mantovana vien buono nel sessantesimo anniversario della morte del cuoco reverese Angelo Berti (1909-1964): creatore della Taverna degli Artisti sull’argine di Po, fu il demiurgo del pranzo gonzaghesco del 23 settembre 1961 nella Sala dei Cavalli di Palazzo Te coincidente con l’esposizione in Ducale dedicata ad Andrea Mantegna, capostipite delle esposizioni pop con 250mila ingressi in 70 giorni e 20mila cataloghi venduti. Fu il decollo di Mantova città d’arte.Quel banchetto va considerato come lo spartiacque fra il prima e il dopo di senso e sostanza della convivialità di Mantova. Da esso generano i fortunati equivoci riferiti alla cibaria gonzaghesca che sarebbero spiovuti nei pentolami borghesi e contadini. L’iniziativa anarco-culinaria di Berti incorporò l’ingrediente della magia e della nobiltà nei ricettari di casa. Di corte – quella agricola – non ducale. Il cuoco di Revere mise a tavola uno stuolo di giornalisti, intellettuali, artisti e altri influencer d’allora, corrispondendo alla richiesta del sindaco Luigi Grigato, del sovrintendente Giovanni Paccagnini e del rappresentante del comitato milanese della mostra Dino Villani. Fondamentale il genio di quest’ultimo, mantovano di Suzzara, inventore dei Ristoranti del buon ricordo, Premio Suzzara, Festa della Mamma, Miss Italia, Colomba di Pasqua, Accademia Italiana della Cucina.
Grandi numeri
Per il pranzo (la cena sarebbe stata fatale) di sabato 23 settembre, Berti compilò una lista di 35 portate ognuna con il proprio vino. Quasi cinquanta i figuranti, camerieri, suonatori in costume quattro-cinque-seicentesco, non importa.Lo chef - che fu maestro di Giorgio Gioco fondatore a Verona dei Dodici Apostoli – nella definizione del nome dei piatti inventò, smontò, e ricompose la storia come gli pareva, shakerando medioevo e rinascimento, alimentazione contadina e desco principesco: le sue iperboli gastro-storiche, alimenteranno per decenni l’immaginario principesco intorno alla cucina mantovana, infondato.
Invitati vip
La reazione digestiva degli invitati (tra i quali Dino Buzzati, Alessandro Cutolo, Paolo Monelli, l’assessore milanese Bettino Craxi) non è documentata, risulta invece certo il risultato anche nell’oggi: Mantova risonante come una delle capitali del cibo e del buon vivere.
Il gastronomo Vincenzo Buonassisi così ritrasse Berti: “Capitò, certo, l’occasione buona, al momento giusto, il famoso pranzo dei Gonzaga che lui rifece con gusto di grande artigiano, con piglio di autentico condottiero. Ma allora non mi resi conto di quanto fosse sua, intimamente, la conoscenza della cucina rinascimentale, la passione di riportarla in una dimensione moderna”.
Due anni dopo, nel 1963, Gino Brunetti (don Costante Berselli) pubblicò “Cucina mantovana di principi e di popolo” dove coniugò brillantemente antichi testi e ricette popolari. Per un solenne abbaglio titolo e testo marchiarono a vita la gastronomia locale che s’illude di discendere dai fornelli ducali. Gli anni Sessanta segnano il Big Bang dell’aulico mangiare mantovano.
Gli anni Ottanta
Fra gli anni Ottanta e il primo ventennio di questo secolo nel Mantovano s’è conformata una costellazione di ristoranti di assoluta grandezza: il Pescatore dei Santini delle Runate di Canneto sull’Oglio che continua a meritare le tre stelle Michelin, l’Ambasciata che era dei fratelli Tamani di Quistello tenutari di 2 Stelle; l’Aquila Nigra dei Bini che faceva brillare una Stella quanto Al Bersagliere dei Ferrari di Goito che poi conseguì la seconda. Fu stellato e nel 1992 decise di rinunciare per mutare la concezione del ristorante il Cigno dei Martini che ora passa di mano. Meritò una Stella l’Osteria da Pietro di Castiglione, come La Capra di Cavriana e l’Enoteca Finzi di Rivarolo. La contabilità astrale in un’epoca ha illuminato il Mantovano con 12 Stelle Michelin: 3+2+2+1+1+1+1+1.
Senza enumerare – al di là delle Stelle - esperienze singolari nell’ambito della tradizione più scoperta, come la Locanda delle Grazie di Bellintani-Aldegheri o il Ristorante Nizzoli di Villastrada di Dosolo, oppure l’esperienza milanese e mantovana del Baffo, ovvero Giulio Ghidetti, sino all’exploit del San Gervasio di Tonelli.Va constatato che quella delle stelle fu una congiuntura, un allineamento temporaneo. Di cose ne sono cambiate parecchie, come il concetto della cucina del territorio non più fraintesa come di principi e di popolo (Gino Brunetti) ma di terra e di acqua (Paolo Polettini), come la filologia delle radici con il mio “Il Mangiare Cattivo”, la ripartizione storica operata da Giancarlo Malacarne, o la vivisezione delle origini autentiche e non autentiche praticata oggi da Alberto Grandi.
Prima e dopo
La spinta propulsiva in esaurimento non riguarda tradizione e qualità preservate da antichi mestieri e assetti familiari. A modificarsi sono la domanda del pubblico da una parte e l’offerta degli acchiappaturisti. Dal sistema della ristorazione opulenta e tovagliata pre-crisi economica, pre-terremoto, pre-epidemia, pre-cultura social, pre-food blogger sembra essere passato un secolo. E pare che pochi si siano accorti di tanti pre che insieme non chiariscono come sarà il post, il quale va rischiando di divenire più di popolo (nel senso di standardizzazione) che di principi. Se l’ospitalità mantovana punta fortemente su una tipologia alta e colta di visitatori e quindi clienti, è necessario correlare gli importanti eventi culturali (mostre e festival) con l’enogastronomia. Essa dev’essere all’altezza e singolare, anche se di strada, in piedi, da passeggio, piatto unico, menu turistico, agriturismo, trattoria o ristorante con i fiocchi. Come fece 63 anni fa Angelo Berti sulla scia della mostra di Mantegna e con la formula perfetta che l’allora sindaco Luigi Grigato svelò ai commensali: “Non so se dirvi buon appetito o buon divertimento”.