«Io, figlio di profughi non scorderò mai gli occhi di mia nonna gonfi di lacrime»
«Quando passo per via Diga Masetti dove nel Dopoguerra costruirono le case per noi esuli istriani provo ancora emozioni forti». La memoria di Andrea Licon è ancora agganciata al 1949 quando, piccolissimo, giunse a Mantova in fuga assieme ai componenti della famiglia fiumana, la mamma Linda, la zia Renata e la nonna Caterina. Oggi, da consigliere comunale, sarà lui a pronunciare l’orazione ufficiale per il Giorno del Ricordo, a Porto Mantovano. «Subito dopo l’8 settembre 1943 i partigiani titini iniziarono a scendere dalle montagne, mi raccontava mia nonna, passavano casa per casa degli italiani, rapivano le donne, le tenevano in ostaggio e spesso le violentavano. Per riaverle bisognava lasciare ogni bene e scappare verso Trieste». E chi non riusciva finiva nelle famigerate foibe.
Le foibe
«Alcuni vicini di casa fecero quella fine – prosegue Licon, che oggi ha 76 anni – alla mia famiglia andò bene, passò il confine e finì in un campo profughi nelle Marche. Mia madre conobbe lì, a Scervignano, mio padre, e sempre lì nacqui io. Rimanemmo alcuni anni finché assieme a un’altra quarantina di persone, tutte fiumane, arrivammo a Mantova. Primo alloggio di fortuna la caserma Montanara e Curtatone, quella che oggi resta in degrado in largo 24 Maggio. Poi, agli inizi degli anni Cinquanta, costruirono le case di via Valletta Valsecchi. Sistemazioni d’emergenza per cercare di risolvere il problema di un tetto sopra la testa di gente obbligata a lasciare la propria terra.
Gli alloggi ai profughi
«C’era chi voleva il piano rialzato sognando di intercettare lo svanito profumo del mare - il ricordo delle assegnazioni – chi invece pretendeva una cucina spaziosa come quella della casa perduta, chi piangendo di gioia si accontentava della cantina». In tutti lo sguardo malinconico di un impossibile ritorno nella amata Fiume. «Con il calare dell’inverno negli appartamenti si moltiplicavano le angosce e si riacutizzavano le ferite – rammenta Licon – gli anziani si lasciavano andare a racconti tristi e crudamente reali. Alcuni iniziarono a bere, mia madre cadde in depressione. Non dimenticherò mai gli occhi gonfi e umidi di mia nonna, i suoi balbettii, le sue parole affannose quando parlava di conoscenti spariti nel nulla, forse infoibati». Nelle serate estive, nei filòs, gli anziani narravano «storie di tutt’altro tenore, intrise di atti di valore compiuti con il comandante D’Annunzio e descrivevano la stagione in cui a Fiume calarono avventurieri da tutta Europa richiamati da un’incredibile libertà di vita». Da ragazzino Licon ricorda la Mantova anni Sessanta scomparsa: «Le case per noi esuli non ci sono più, sono state abbattute, così come non c’è più lo zuccherificio da cui proveniva il profumo di barbabietole trasportate ogni mattina da decine di carri, il suono acuto della sirena per annunciare l’inizio e la fine del lavoro e lo stridio del taglio dei tuberi».